Vino: stampiamolo, forse è meglio.4 min read

Tempo fa  mi è capitato, parlando con dei buyers d’oltreoceano, sentirli lamentare della variabilità del vino italiano (pugliese in particolare):  troppo differente da un anno all’altro e quindi poco affidabile. Il mercato (quale?) invece, secondo loro, richiede un prodotto sostanzialmente uguale, che non vari da un anno all’altro. Certo chi è abituato a frequentare le sfere alte dell’enologia, quella con i guanti, quella che guai a parlare di “masse critiche”, rimarrà stupito da affermazioni di questo tipo.
Potrebbero anche dire: ma che razza di gente frequenti? Chi invece, come me (e non credo di essere l’unico) ha frequentato i grandi polmoni vinicoli, alias cantine sociali, a questi discorsi è più abituato. Già perché, anche se noi tutti ne parliamo poco, il mondo del vino non è solo fatto dalle belle bottiglie che ogni giorno abbiamo la fortuna di assaggiare.
Ma torniamo alle “masse critiche”: la pretesa che il vino possa essere ogni anno uguale, non appartiene certo  ad un concetto agricolo, ma piuttosto a idee mutuate dall’industria, che in quanto tale può riprodurre lo stesso prodotto indifferentemente dall’ambiente e dal clima.,comunque e sempre. Per fortuna il vino, quello vero e la sua produzione, (quando espressione della terra e della sensibilità del produttore) è soggetto alle leggi  delle natura e non a quelle delle macchine e del mercato. Ogni anno quindi non può, ma deve essere diverso.

Questo concetto così elementare sfugge (anche senza rendersene conto) a molti, complice  una società che ci abitua a “standard qualitativi” (leggi "sempre uguale") ed alla inesauribilità  del prodotto. Di conseguenza accettare che il vino di un produttore ogni anno sia differente, specie  in paesi dove non c’è tradizione vinicola è cosa non facile da capire. In Australia ad esempio la scoperta scientifica della sostanza responsabile del sentore di pepe nero così tipica del Shiraz, uva che rappresenta più di un quinto della produzione di uva di quella nazione, ha fatto dire al ricercatore dell’Australian Wine Research Institute: “Ora, se gli enotecnici desiderano  maggiori contenuti nella composizione del loro vino o se vogliono avere una qualità costante da una stagione all’altra, potranno misurarla e controllarla a loro piacimento.”

Ancora prima lo stesso ricercatore e scopritore del composto aromatico (una sola goccia darebbe il sapore di pepe ad una piscina olimpionica) aveva dichiarato: “Temevamo che dopo tanti anni di intenso lavoro, avremmo scoperto che questo aroma era causato da un mix di sostanze che operavano insieme in una varietà di maniere. In quel caso, sarebbe stato molto più difficile per i vinificatori modulare il carattere aromatico del vino”. Potenza della scienza! Se c’era qualche possibilità che il vino in Australia avesse ancora  qualcosa di naturale ora ce lo possiamo dimenticare definitivamente.  D’altronde il  Nuovo Mondo non è nuovo a questa concezione del vino e allora come  non sospettare  (ma è più di un sospetto, visto anche quanto abbiamo scritto noi in: Passion fruit: ovvero come nascono certi vini con certi profumi) che molti dei Sauvignon Blanc della Nuova Zelanda così “tipici” per il loro  pronunciatissimo  odore di frutto della  passione siano in realtà costruiti in laboratorio con l’aggiunta di sostanze aromatizzanti?. Nessuno più si scandalizza  ed è proprio questo  che fa scandalo. L’accettare passivamente che qualsiasi ritrovato scientifico in qualche modo renda un prodotto della natura una sostanza che può essere “addomesticata” ma più verosimilmente sofisticata è il vero e proprio scandalo. Il tutto ad uso e consumo di produttori che trovano naturale che ciò avvenga in barba a qualsiasi discorso.

Ma è legittimo chiedersi anche se queste pratiche enologiche (chiamiamole così) siano solamente a carico dell’altro emisfero oppure se qualche furbetto nostrano non le pratichi già. Il sospetto è lecito sentendo anche le dichiarazioni di Lorenzo Villoresi, uno dei più importanti profumieri, che in una intervista a Winenews  di qualche tempo fa disse di temere che tali pratiche fossero già state adottate, aggiungendo anche che al momento è assai improbabile trovarne traccia con esami di  laboratorio. Addio terroir, addio tipicità? Addio vino o abbiamo ancora speranza? Passiamo la parola agli enologi.

 

 

Pasquale Porcelli

Non ho mai frequentato nessun corso che non fosse Corso Umberto all’ora del passeggio. Non me ne pento, la strada insegna tanto. Mia madre diceva che ero uno zingaro, sempre pronto a partire. Sono un girovago curioso a cui piace vivere con piacere, e tra i piaceri poteva mancare il vino? Degustatore seriale, come si dice adesso, ho prestato il mio palato a quasi tutte le guide in circolazione, per divertimento e per vanità. Come sono finito in Winesurf? Un errore, non mio ma di Macchi che mi ha voluto con sé dall’inizio di questa bellissima avventura che mi permette di partire ancora.


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