il nostro caro amico Maurizio Gily, agronomo nonché direttore del giornale Millevigne con relativa versione online ci ha inviato queste belle righe sulla “moderna” degustazione e soprattutto sui “moderni” degustatori. Lo ringraziamo e vi invitiamo a non perdervi una riga dell’articolo.
Come degustatore mi ritengo di media capacità, ma mi vanto, forse a torto,di non essere mai stato un “cercatore di difetti” a tutti i costi. I degustatori che sentono puzze e puzzette dappertutto somigliano a cani bassotto intenti a fiutare la tana di volpe, scodinzolando vigorosamente con grande soddisfazione quando sentono la minima traccia della preda. Spesso sono vini di grande concentrazione e complessità, che non hanno subito pesanti stabilizzazioni, specialmente dopo alcuni anni di bottiglia, a finire nella lista nera del degustatore bassotto, dal quale rischiano clamorose bocciature. Il fatto che quel vino si venda magari a 100 euro o più alla bottiglia è, per questi esperti, un dato ininfluente, quello che conta è la sua “franchezza”, come si definisce l’assenza di difetti nell’aulica lingua degli iniziati (o integrità del frutto secondo Luca Maroni, di aulicità maestro).
Con ciò non nego certamente che l’assenza di difetti sia importante, è la prima qualità di un vino: affermo però che il concetto di difetto è scivoloso. Quando un determinato sentore si trova a concentrazioni basse molti consumatori, magari non professionali ma nemmeno inesperti, se non influenzati, non lo percepiscono come un difetto. Ciò che si trova dipende da ciò che si cerca: ci sono metri di giudizio diversi e tutti rispettabili, ci sono anche soglie olfattive diverse tra le persone e sono specifiche per determinate sostanze, quindi sono molti i fattori che allontanano dalla degustazione del vino le chimere dell’oggettività e della perfezione. Ma è quasi un dato oggettivo che certi vini (oserei dire più francesi che italiani) conquistano molti giudizi di eccellenza sul mercato ma, se un degustatore patentato li passasse al setaccio fine, li giudicherebbe tutt’altro che perfetti.
Sul lato opposto ci sono i fautori dei vini “naturali a tutti i costi”, senza solfiti aggiunti (ne ho assaggiati di buoni, non vorrei essere frainteso), che nei casi più estremi sembrano pronti a bere con il naso tappato nel nome dell’ “etica”. Per costoro se un vino è troppo limpido e “pulito” è un vino sospetto, quasi certamente un vino “lavorato”, un vino “industriale”, un vino “pastorizzato”, un “vino allo zolfo”, in ogni caso derubato del suo afflato vitale e reso inerte miscela idroalcolica. Il difetto rischia allora di diventare una prova della “verità” di quel vino, innescando un sillogismo devastante: siccome non è buono, allora è vero, se è vero mi piace, quindi mi piace se non è buono.
Tra i due estremi, il tecnico dal fiuto canino assillato dal dogma della “franchezza” e la signora o il signore per cui “basta che sia naturale” è inutile tentare il dialogo, che sarebbe un dialogo tra sordi. Meglio rimanere neutrali e fidarsi dell’antica saggezza del Tao Te King: l’eccesso non è la via, e ciò che non è la via non dura a lungo.