Un vitigno di nome alloro e un Vinho di colore Verde7 min read

Il fiume ha una cattiva fama. Il mito popolare lo identifica col Lete, attraversato il quale gli umani perderebbero qualsiasi ricordo, vagando poi in direzione dei Campi Elisi. Ma il comandante Decimo Giunio Bruto non può star dietro a queste storie, guada il fiume con decisione e dall’altra riva urla i nomi dei suoi legionari ancora bloccati dalla paura. “Emilio, Claudio, Fabio! Ricordo i vostri nomi a uno a uno, vedete che la memoria non l’ho persa!”. E la forza dell’esempio sbaraglia i dubbi, l’esercito romano passa il fiume.

La scena, che si sarebbe svolta nel 138 aC, l’ho vista riprodotta con statue in grandezza naturale direttamente sul luogo: che è Ponte de Lima, regione del Minho, nel Portogallo più settentrionale. Il ponte fu costruito molto dopo, oggi dà il nome alla cittadina e ne rimane l’attrazione principale. Da parte mia all’arrivo mi sono fiondato subito al Museo del Vinho Verde, giacchè la valle del Lima è la sua culla insieme con la valle del Minho che, quasi parallela, segna parte del confine con la Spagna. Su una terrazza del museo ho visto subito un esemplare in vaso di Loureiro, che in portoghese significa alloro ma che qui identifica un vitigno molto interessante, diffuso in particolare lungo questa valle con tanto di eno-sentiero dedicato. Merita attenzione.

Forse il guado del fiume sarebbe stato più agevole se i legionari avessero mandato giù un sorso di vino locale a mo’ di ansiolitico, pur considerando che quest’uva Loureiro non dà origine a vini per la soldataglia, potenti e gagliardi. Al contrario, quelli che ho assaggiato in purezza sono tutti pesi piuma, con l’alcol più sotto che sopra a  dodici. Però…però riescono a impressionare per una caratteristica tutto sommato rara: l’intensità aromatica sotto il naso non è esuberante, salvo poi esplodere in bocca con energia.

È un rapporto capovolto rispetto a tanti altri vini/uve, che si giova peraltro del sostegno di un’acidità importante, con tartarico spesso sopra a sette e ph schiacciato verso il tre. Il residuo di zucchero e la carbonicità, caratteristici dell’archetipo Mateus, nelle versioni “di tendenza” sono assenti o del tutto marginali. E la persistenza è decisamente lunga relativamente alla struttura leggera. L’uso del legno è limitato a qualche esperimento, si privilegia invece l’espressività varietale. Quanto al riferimento all’alloro, però, non saprei dirvi: nonostante qualche allusione su etichette e in rete, io il sentore corrispondente non l’ho mai avvertito. Piuttosto agrumi, fiori e mineralità. Che le due piante si somiglino, è da escludere anche a occhio. Sono i misteri dell’etimo-ampelografia…

Certo questa evidente personalità dei vini da Loureiro è il risultato di vari fattori, in primis l’interesse recente a un’attenta vinificazione monovarietale da parte di un manipolo di produttori. Un certo contenimento delle rese rispetto al passato fa parte del gioco; ma alla base c’è un ambiente che è verde più del vino, con un clima fresco e umido considerato “oceanico”.

In generale secondo il disciplinare il Vinho Verde, che identifica enologicamente questa parte del mondo dal 1908, si può ottenere da una o più di queste uve bianche: Loureiro (primo per superficie dedicata), Alvarinho, Avesso, Arinto e Trajadura. Peraltro i loro nomi nella Galizia spagnola non cambiano di molto (il nostro suona femminile, Loureira). E almeno dal punto di vista organolettico la combinazione Alvarinho-Loureiro (le più diffuse) sembra ideale. Il primo è esuberante nei profumi e un po’ più più corposo. Il Loureiro assicura slancio e sostegno di freschezza.

Tuttavia anche nel Minho è scattata la moda dei monocultivar, e da qui l’attenzione a questa valle del Lima. Si tratta di una delle nove sottozone definite, densamente popolata almeno rispetto ad altre regioni portoghesi, e la proprietà è molto frazionata: il numero dei viticoltori è soverchiante rispetto a quello degli imbottigliatori, come del resto in tutta la regione Minho.

I filari fungono spesso da linea di confine, e le viti sono allevate tradizionalmente in altezza per sfuggire all’umidità: a pergola con colonnine di granito (che è la roccia madre dominante) o addirittura maritate come nelle alberate di Aversa. Le piccole produzioni familiari per autoconsumo sono la norma, e domina ancora il promiscuo: per me che arrivo dalla Toscana è uno spettacolo.

Ed ecco qualche nome di imprese-bandiera per la riscossa del Loureiro, che mi fa piacere segnalare in base ai miei assaggi dell’annata ’18. Naturalmente ce ne sono altre, anzi stanno crescendo di numero, ma nell’insieme restano poco visibili dai radar italiani, almeno per ora. Nei dintorni di Ponte de Lima ho trovato subito Aphros Wine, dove Vasco Croft ha convertito alla biodinamica una proprietà di famiglia semi-abbandonata. Personaggio con sensibilità artistica lavora le proprie uve in due diverse cantine attigue, la moderna con design d’autore e la “medievale” dove il vino dorme in anfora, coperto addirittura da un velo d’olio a protezione (vi ricorda qualcosa?). Ne escono due Loureiro paralleli, ambedue di grande slancio e pulizia. Diverse altre etichette interessanti completano il quadro.

Nei paraggi ho trovato Quinta do Ameal, bella proprietà e residenza storica di un paio di secoli, a conduzione biologica e aperta al turismo. Ha una discreta presenza internazionale dovuta agli sforzi di varie generazioni. Da qui è partita l’attenzione al Loureiro, recentemente sotto la regia di Pedro Araúio anche se la conduzione odierna è passata da poco sotto l’ombrello di Esporão. Il 2018 è di grande finezza, con un che di balsamico; ho assaggiato pure un 2016 fermentato in legno con bâtonnage (“Escolha”), a mio gusto meno convincente.

Ma è Quinta da Palmirinha l’azienda che mi ha fatto scoprire, un po’ per caso, il Loureiro. La prima volta è stato col 2013, a seguire il ’14, il ’16 e il ’17. Qui siamo più a sud, a Sousa, e Fernando Paiva è un pioniere della biodinamica in Portogallo, con poco più di tre ettari di terreno. Lieviti autoctoni e niente solfiti aggiunti, al posto di questi ultimi usa i fiori di castagno: sapore franco e slanciato come pochi, ma in un corpo sempre elegantemente sottile.

È comunque Anselmo Mendes che si può considerare l’alfiere della rinascita qualitativa di tutto il Vinho Verde, a cui ha contribuito con un intenso lavoro di consulente. Si presenta infatti come “winemaker” ma direi un flying winemaker viste le sue collaborazioni dalle Azzorre al Brasile all’Argentina. La sua base è più a nord, nella valle del Minho dove è nato. Non a caso si è dedicato soprattutto all’Alvarinho che a nord è più diffuso, contribuendo a lanciare la varietà a livello internazionale all’inizio del millennio. Gli dedica diverse etichette ma produce anche un altro bianco monovarietale, l’Avesso. Le uve per il suo Muros Antigos Loureiro sono però, manco a dirlo, della valle del Lima. Mi è sembrato apena più denso di altri, ma si fa per dire.

Con il grande frazionamento dei vigneti una cooperativa non poteva mancare: Adega Ponte de Lima fa la sua parte dal 1959, dedicando al Loureiro l’etichetta-bandiera, floreale e classicamente pétillant. Offrono anche due selezioni, che però non ho assaggiato; e ne fanno la base di ben due spumanti (uno sviluppo direi scontato date le caratteristiche dell’uva, a cui anche altri dedicano attenzione). Ma il segno che siamo di fronte a un trend varietale favorevole viene addirittura da Quinta do Azevedo, azienda di proprietà della Sogrape, il gigante che controlla il marchio Mateus e molto altro. Anche il loro Vinho Verde Loureiro mi è sembrato molto buono, dotato di un frutto forse appena più maturo.

L’escursione a nord del Douro mi ha portato infine a una curiosa scoperta: il Vinho Verde può essere…rosso (“tinto”). Anche se previsto dalla DOC si tratta, almeno finora, di un oggetto di consumo locale basato sull’uva Vinhao, che comunque molte delle aziende di cui sopra mettono marginalmente in catalogo. È scuro e aspro, un po’ aggressivo ma a suo modo beverino, da consumare giovane come il verde-bianco. Buono per mandar giù il Sarrabulho, un tripudio di frattaglie – sangue compreso, in cui viene cotto il riso d’accompagnamento – che è la maniera locale di fare la festa al maiale. È piatto per stomaci forti ma l’abbinamento funziona alla grande, come suggeritomi da Vasco Croft e come verificato al ristorante con vista sul ponte e sulle statue dei legionari.

Alessandro Bosticco

Sono decenni che sbevazza impersonando il ruolo del sommelier, della guida enogastronomica, del giornalista e più recentemente del docente di degustazione. Quest’ultimo mestiere gli ha permesso di allargare il gioco agli alimenti e bevande più disparati: ne approfitta per assaggiare di tutto con ingordigia di fronte ad allievi perplessi, e intanto viene chiamato “professore” in ambienti universitari senza avere nemmeno una laurea. Millantando una particolare conoscenza degli extravergini è consulente della Nasa alla ricerca della formula ideale per l’emulsione vino-olio in assenza di gravità.


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