Un carrello di tre grandi prodotti italiani11 min read

Torna Silvano Formigli con una riflessione su tre grandi prodotti italiani.

 

Chi mi conosce  sa che da tempo asserisco esserci tre prodotti Italiani che per ricchezza di assortimento, storicità, qualità e tipologie diverse, valorizzazione di microaree e per tradizioni storiche non hanno rivali. Purtroppo però non trovano la giusta valorizzazione.

 

 

VINI DOLCI

 

Ogni zona viticola storica ha la tradizione di un vino dolce e/o liquoroso, frizzante e/o fermo; la maggior parte delle volte ottenuto da uve appassite o surmaturate.
Questo perché nelle campagne offrire vino era dozzinale visto che la costrizione del mercato a pagare poco le uve e/o vini aveva portato vignaioli e fattorie a cercare la remuneratività con l’aumento della quantità, molte volte a discapito della qualità. Per questo non si offriva mai un semplice vino, ma un vino passito.
Si sa bene che per fare un vino passito si deve rinunciare alla quantità, quindi in controtendenza con la cultura della povertà contadina. Questo perché il bilancio lo salvi se vendi di più, visto  che i mediatori e commercianti ti pagano le uve a chilo ed il vino a litro e quindi più produci, più incassi.
Ecco perché da noi il Vinsanto (e potremmo citare qualsiasi altro vino dolce) si offriva in piccole dosi (“ti offro un Vinsantino”) e in piccoli bicchieri, agli ospiti più cari. Si donava una bottiglia al proprietario terriero (teniamo conto che nella mezzadria dove tutto veniva diviso circa a metà tra proprietario e contadino, il Vinsanto era l’unico prodotto che il contadino poteva produrre senza dividerlo con la proprietà), una al dottore, una al parroco, una al maresciallo dei Carabinieri, ed una al farmacista.
Quindi prodotti ottenuti in modeste quantità con costi altissimi, che non venivano quantificati trattandosi di manodopera “gratuita”
Dal Picolit del Friuli, fino al Moscato Passito di Pantelleria, si passa per centinaia di tipologie di vini dolci, da sbizzarrirsi nel creare una proposta commerciale e culturale.
Nel mercato italiano c’è stata una buona presa di coscienza di questo patrimonio e tanti ristoranti hanno creato la carta dei vini dolci da usare, oltre che nella proposta dei dessert, anche e soprattutto con l’inserimento del carrello dei formaggi,
Certo in questi casi è indispensabile l’offerta del vino con costo a bicchiere, tanto sappiamo che sono vini che si mantengono per la loro struttura e grado alcolico, specie se conservati in frigo con il tappo Vacuvin.
Ma nel mercato estero purtroppo non riusciamo a prendere immagine, anche perché per anni abbiamo confuso questo mercato con prodotti di scarso livello: vedi l’Asti (da non dimenticare che il metodo della filtratura dolce è stato inventato in Piemonte nel 1500 da Croce, ben oltre 200 anni prima del metodo classico nello Champagne), vedi il Vinsanto Liquoroso (meno male che da tre anni la Legge ha tolto la possibilità di fare il Vinsanto Liquoroso). Inoltre molti nuovi produttori cercano di imitare i Sauternes creando vini con muffe nobili, anziché valorizzare metodi nostri tradizionali, magari anche da vitigni alloctoni come Sauvignon. Lo fanno non tenendo conto che con i vini muffati entriamo  in competizione con un vino che ha una storia importante, mentre con i passiti nessuno ci fa concorrenza.
Credo sarebbe utile che il Ministero o chi per esso (vedi Enoteca Italiana che fa delle belle edizioni) facesse redarre  un libro riportando tutti i vini dolci d’Italia, con la storia della loro nascita e delle loro tradizioni.
Se la Francia avesse avuto questo patrimonio la Sopexa l’avrebbe sicuramente già fatto.

 

 

OLIO

 

Su questo prodotto forse bisognerebbe fare un “romanzo a puntate”, proprio perché ormai abbiamo perso il carro della valorizzazione. Tutto per fare leggi e promozione solo a vantaggio di pochi imbottigliatori (la maggior parte ormai nemmeno più di proprietà italiana anche se imbottigliano in Italia) e portando all’abbandono di un grande patrimonio olivicolo di antica tradizione., specie nel sud. Non dimentichiamo che fino a pochi anni fa eravamo anche i più grossi produttori di olio del mondo.
Se Carlo Macchi lo concede vi potrei fare pubblicare una mia relazione sull’olio, che ho sempre dato nel fare le serate sull’olio per cercare di prestare più attenzione su questo prodotto. (concesso!  n.d.r.)
Apro una parentesi sulle serate di cultura sull’olio, dove ho trovato sempre, da nord a sud d’Italia ed all’estero, un enorme (dico enorme di proposito) interesse.
L’Italia ha in patrimonio di oli a dire poco meraviglioso, proprio dovuto alle varie cultivar ed ai vari climi ed ambienti.
Anche in questo caso, come per i vitigni autoctoni, possiamo offrire una panoramica di caratteri e gusti per i vari abbinamenti, per i vari condimenti.
Nella mia vita professionale e privata mi sono sempre battuto molto per la valorizzazione di questo che ritengo il più grande prodotto agricolo Italiano dove non temiamo concorrenza. Il tutto  con grande soddisfazione morale ma con scarsissimi risultati economici. Fino dagli anni ’70 ( rapportando il valore della moneta) continuo a dire che: “I consumatori in generale mettono nello stomaco l’olio da 3 Euro e nell’automobile l’olio da 15 Euro.
Non dimentichiamoci dei proverbi contadini (come sempre i proverbi in poche parole rendono l’idea di un concetto):
– Piantare il castagno per me, la vite per il figlio, l’olivo per il nipote (rende l’idea dei tempi di entrata in produzione di queste piante)
– Pane di un giorno, olio di un mese, vino di un anno…..

Sostengo da sempre che oltre alla qualità dell’olio sui tavoli dei ristoranti è importantissima la qualità dell’olio in cucina, perché questa da la vera digeribilità e sanità di alimentazione, ma  ho trovato solo un amico giornalista del resto del Carlino nelle Marche che si batteva per fare gli articoli sui ristoranti verificando che olio usavano in cucina.
Passare a oli di categoria superiore sarebbe la mossa vincente per il consumo del prodotto di qualità, e per i Ristoratori apporterebbe un netto miglioramento alla qualità dei piatti. Gradualmente inoltre e si renderebbero conto che non spenderebbero tanto di più, avendo rese molto maggiori.
Per noi che vendiamo olio, riusciamo spesso a fare un assortimento di olio per l’uso sui tavoli, ma è una battaglia (spesso persa) di centesimi, il riuscire a spostare l’olio di cucina su prodotti agricoli originali.
Spero tanto che i giornalisti gastronomici delle guide inizino questa verifica, per togliere sia gli oli di sansa e oliva sia gli oli di oliva (che ritengo, riferendosi al vocabolo, la più grande “fregatura” che possiamo dare al consumatore) dalle cucine.
Se io dico spremuta di arancia, leggo che ho spremuto l’arancia per ottenerla; così dovrebbe essere per l’olio di oliva, specie leggendo letteralmente la parola.  Invece questo prodotto può essere ottenuto per il 98% da oli di raffinazione che in origine avevano difetti e quindi trattati anche con solventi chimici.

Un piccolo consiglio alla ristorazione (ed ai produttori-venditori di olio). Quando ho fatto vacanze in Portogallo mi ha colpito come in qualsiasi livello di ristorazione, anche la più semplice, appena ti siedi ti portano del pane, delle olive, dei formaggi, e l’olio per condire il pane. Un modo (io dico elegante) di ospitalità che serve  al consumatore anche a bloccare lo stomaco. Da noi molte volte ti offrono l’aperitivo (magari lo trovi anche nel conto seppure dicono di offrirlo) e poi attendi diversi minuti per avere un qualcosa sul tavolo, ma al massimo è pane e acqua (come i carcerati!) che ci ingolfa, senza darci alcun sapore.
Girovagando per lavoro nel mondo sono riuscito a convincere alcuni ristoranti (dopo una bellissima esperienza fatta consigliando un mio amico di Trieste nel 1978) a tenere sul tavolo tre bottiglie di olio diverse (per cultivar, per origine, per gusto); normalmente un delicato, un medio saporito, un saporito e portare appena si siede l’ospite del pane, meglio se abbrustolito. Ovviamente si parla di pane tipo Toscano, Pugliese, Romano ecc. Chi ha provato non solo continua ma ha una clientela che se per caso non cambia periodicamente la tipologia di olio, stimola il Ristoratore dicendo: “Che ci proponi di nuovi oli da assaggiare?”
Questo mio amico (e tanti altri) lo fanno da trenta anni con successo, ma mettendo sul tavolo oli AGRICOLI VERI, perché chiunque abbia coscienza del lavoro si rende conto che mettendo un giusto versatore (consiglio quelli della Ditta Piazza) con poche gocce di olio si fa contento un consumatore e con una bottiglia si fanno centinaia di “fettunte”, come si dice da noi in Chianti. Attenti: fetta unta, la nostra merenda da ragazzi, una fetta di pane qualche goccia di olio (perché prodotto prezioso: si diceva che rompendo una bottiglia, era disgrazia per la famiglia) e le dita della mamma o nonna che lo spalmavano…da non confondere con la bruschetta.

In sintesi, usiamo olio di qualità non solo per condire, ma anche per cucinare se vogliamo bene al nostro stomaco, fegato, intestino, pelle, (insomma se ci vogliamo bene..)  e se vogliamo bene ai nostri clienti.

 

 

LIQUORI

Se l’olio è la cenerentola della nostra agricoltura, i liquori Italiani sono la cenerentola del commercio delle bevande.
Facciamo una riflessione su quanti liquori offre l’Italia da Nord a Sud, passando per le varie tradizioni e ricette (segrete) di Monaci e Farmacisti. Partiamo dagli amari-amari del nord, agli amari più dolci del sud, dei vari Certosini, per arrivare all’Anice nelle Marche, al Centerbe in Abruzzo, al Limoncello della Costiera Amalfitana, al Mirto di Sardegna e potremmo fare un “elenco-enciclopedia”, mettendo insieme alla tipologia anche i vari produttori.

Invece a cosa assistiamo? Si fa il Brandy (con legislazione generica) entrando in competizione con prodotti storici come il Cognac e l’Armagnac che hanno regole precise;  si consumano Rum e liquori stranieri  a vagoni.
Nel mondo del vino penso spesso alla capacità dei Francesi di tutelare e valorizzare i prodotti, come hanno saputo fare sapientemente anche con i Distillati. Del prodotto di una Abbazia ne hanno fatto un marchio mondiale ed il paese di questa Abbazia ha un movimento turistico eccezionale, legato ovviamente al liquore.
Noi abbiamo valorizzato in tutta Italia la Grappa (per fortuna questa dizione è stata riconosciuta solo al prodotto italiano), quando si sa bene che era tradizione del nord.
Infatti se notiamo nella storia, al nord per i climi più freddi i prodotti erano più alcolici e più secchi, man mano si scende per l’Italia diventano più dolcificati e meno alcolici.
La maggior parte di queste grappe sono comunque distillate al nord……
E’ bello tutelare e valorizzare un prodotto Italiano (magari con Leggi più ristrette), ma non serve mantenerlo così generico per tutta Italia.
Poi cosa accade sul mercato? Va di moda l’Amaro?  Si vendono sia Amari buoni  sia falsi di tutti i prezzi e alla fine si porta  discredito su questo prodotto che finisce nel dimenticatoio, magari distruggendo anche la realtà della vera zona di origine.
Va di moda il Limoncello che si produce anche a Venezia (è una battuta!!!), cioè lo vedi imbottigliato anche in zone che i limoni al massimo ne hanno uno in serra. Così il consumatore non distingue tra il vero Limoncello artigianale e quello industriale e alla fine non sa più qual è la vera zona di origine.

Allora cosa dico, cosa mi permetto di consigliare ai ristoratori: di fare un carrello dei liquori italiani. Si sa che all’inizio è “dura” farlo accettare al consumatore, che segue appunto gli effetti moda, ma quando berrà un vero Anice, un vero Centerbe, un vero Certosino, un vero Amaro, un vero Limoncello, si accorgerà di che bel patrimonio offre l’Italia. Forse il consumatore ora lo vive in maniera sporadica: quando va in vacanza si innamora del prodotto di quell’area, ma appena ritorna nel vortice dimentica, perché nella sua città nessun ristoratore gli propone un fine pasto con un “carrello Italiano”. Pensate a che ricchezza di argomentazioni e dialogo porterebbe al tavolo (come l’assortimento di oli sopra citato).
Ai produttori: favorite un’azienda commerciale che effettui un servizio di assortimento di liquori per i Clienti e/o Consumatori.
Agli Enti Promotori: nelle Fiere ed iniziative di promozione fate un bel “carrello” di liquori italiani e fate un bel libro di liquori italiani con la loro storia, tradizioni e caratteristiche.

I prodotti si qualità si vendono anche grazie alla loro cultura, alla loro storia: di queste i nostri prodotti ne hanno tanta.

Basta crederci……

 

Silvano Formigli

Quello che hai appena letto è un post scritto da un ospite speciale per Winesurf, che non troverai costantemente nel giornale.


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE