Tannini enologici: è giusto digerirli?4 min read

Ho scritto il pezzo sui tannini usati in enologia con l’animo di chi racconta un segreto. In questo caso si tratta di un segreto un po’ atipico: un segreto che sebbene non sia gelosamente custodito da pochi eletti (gli enologi), rimane comunque  poco conosciuto dal resto degli addetti ai lavori. Credo che ciò sia per due motivi principali: pigrizia (basta aprire un libro o informarsi su internet) e timore reverenziale verso un argomento che ci potrebbe far toccare con mano la nostra ignoranza in campo chimico. Ignoranza che ho toccato anch’io, ma che per fortuna ha reagito con una compassionevole carezza anziché con un sonoro schiaffone in pieno volto.
C’è chi potrebbe dire, che per saper distinguere un buon vino da uno meno buono non è strettamente necessario sapere se il tannino di castagno sia idrolizzabile oppure condensato, anzi, che al limite sarebbe meglio che un giornalista queste cose nemmeno le sapesse, ma questo modo di vedere non mi trova d’accordo. Secondo me questo è un modo di intendere la professione che poteva andare bene una ventina di anni fa, quando la differenza tra i vini era fra “buono”, “meno buono” e “non buono”. Ovvio che per poter fare un discorso il più corretto possibile, bisognerebbe per prima cosa dare una definizione di “bontà”, che però mi asterrò dal fornire: sarebbe troppo lunga, sia da scrivere che da leggere, quindi in questo frangente sto intendendo per “buono” semplicemente ciò che questa parola significa nell’immaginario collettivo. Oggi che la pulizia organolettica è a portata di mano di tutti i produttori e la globalizzazione del carattere un pericolo sempre incombente, la differenza fra due vini non è più soltanto una questione di palato ma anche una questione di etica, in vigna come in cantina. Anzi dirò di più, anche fuori dalla cantina, quando le bottiglie partono per raggiungere i luoghi di distribuzione: come esempio invito a leggere dell’iniziativa “vetri leggeri” lanciata proprio da questo sito.
Per poter fare questo tipo di distinzione sarà dunque necessario che chi se ne occupa, conosca molto più che non i soli princìpi-cardine dell’apprezzamento di un vino. Sarà opportuno conoscere e tenersi constantemente aggiornati sugli ultimi sviluppi tecnologici in campo enologico, perchè questo permetterà di poter distinguere fra il “buono autentico” e il “buono costruito a tavolino”, che sono due espressioni molto differenti della “bontà”.
Personalmente non ritengo che gli additivi enologici vari (tannini inclusi) servano tanto a fare un vino più “buono”, quanto a semplificare enormemente la vita di chi il vino lo fa. Se così non fosse, non si spiegherebbero alcuni vini “antichi” che oggi chi può, gusta con gaudio e tripudio. Concludo dunque avanzando l’ipotesi che il grosso distinguo in questo campo, si potrebbe fare fra tre ipotetici macro-gruppi di produttori:
• Quelli che fanno uno splendido, certosino lavoro sia in vigna che in cantina e sentono di potersi fidare della propria uva, dei propri lieviti e delle proprie capacità, pur coscienti della dose di rischio che questo comporta;
• Quelli che pur facendo uno splendido, certosino lavoro in vigna ed in cantina non si possono permettere (economicamente) di fidarsi della propria uva, dei propri lieviti e delle proprie capacità, dunque utilizzeranno alcuni additivi in maniera da garantire due cose: l’espressione che sia il più schietta possibile dei propri frutti e sonni più tranquilli la notte;
• Quelli che per diversi motivi (ad esempio un frutto non splendido) fanno regolarmente un uso importante di additivi;
Umanamente non avrebbe senso biasimare gli appartenenti al secondo gruppo, ma sarebbe però giusto riconoscere in qualche modo a quelli del primo, uno sforzo culturale e materiale maggiore. Quelli del terzo gruppo invece, pur producendo vini palatabili, usano gli additivi come meri “espedienti tecnologici”, ed è proprio quando sono intesi in questa maniera che il loro utilizzo andrebbe contrastato.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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