Tango e cotoletta a Buenos Aires2 min read

Si dice che una metà degli argentini vanti origini italiane, che una metà passi il tempo cercando antenati italioti e che un’altra metà passi il tempo ululando al ritmo del tango.

Ora non state a fare i conti sulle metà, può pure darsi che ci sia un piccolo errore di calcolo e forse è tutta una favola nata nell’anno del default argentino; una panzana cui oggi non dovrebbe credere più nessuno visto il ridimensionamento generale di immagine del nostro paese che qui, agli antipodi, non pare ancora pervenuto.

Difatti non c’è niente di più comune e diffuso dell’italianing, il terzo sport nazionale dopo calcio e polo. Ci copiano tutto: i piatti più diffusi a Buenos Aires sono fettuccini bolognesa, lasagne, cotoletta milanesa e ossibuco con purea. Lasciamo stare la carne grigliata del famoso bife argentino: paradossalmente la più pregiata dovrebbe essere quella di pascolo ma per addomesticare la sua potente muscolatura ci vogliono la mandibola di una benna e i denti di T-Rex.

 In ogni caso i grandi pascoli si stanno riducendo soppiantati da più redditizie colture a cereali da bio-carburante. La popolarità della cucina italiana "made in argentina" però non la si deve a Gualtiero Marchesi o a Massimo Bottura, che nessuno conosce, ma piuttosto ad un modello di Trattoria sul tipo la Parolaccia, nome tra l’altro diffusissimo ed  apprezzato.

Essere copiati in fondo è un bel toccasana per l’orgoglio anche se spesso la copia è meglio dell’originale.

Prendiamo ad esempio l’Homo Patagonicus; a differenza dell’Homo Patacconicus Italicus che è tendenzialmente scansafatiche e piuttosto propenso a mettere in mostra ciò che non ha, il Patagonicus macina lavoro all’aperto e in silenzio, bada al sodo (cioè alla sua struttura fisica) a dispetto di un clima che scoraggia anche i guanachi.

Un altro grande caposaldo argentino, ma sarebbe meglio dire Porteno, cioè di Buenos Aires, è il Tango. Non c’è modo di evitarlo, il contatto con il Tango è obbligatorio. La scelta è ridotta a due opzioni: o lo balli o lo guardi. Se lo balli ti serve un chiropratico a portata di mano e se lo guardi un paio di aspirine aiutano a digerire il canto strappacojones.

Comunqe lo capisco il cuore nostalgico del canto tanguero, l’anima in pena per l’amata lontana, l’amicizia virile e la sensualità profonda (questa un po’ meno). Provo la stessa nostalgia, in formato ridotto, per la piadina e lo squacquerone  e forse anche voi potete già udire il canto romagnolo.

Giovanni Solaroli

Ho iniziato ad interessarmi di vino 4 eoni fa, più per spirito di ribellione che per autentico interesse. A quei tempi, come in tutte le famiglie proletarie, anche nella nostra tavola non mancava mai il bottiglione di vino. Con il medesimo contenuto, poi ci si condiva anche l’onnipresente insalata. Ho dunque vissuto la stagione dello “spunto acetico” che in casa si spacciava per robustezza di carattere. Un ventennio fa decisi di dotarmi di una base più solida su cui appoggiare le future conoscenze, e iniziai il percorso AIS alla cui ultima tappa, quella di relatore, sono arrivato recentemente. Qualche annetto addietro ho incontrato il gruppo di Winesurf, oggi amici irrinunciabili. Ma ho anche dei “tituli”: giornalista, componente delle commissioni per la doc e docg, referente per la Guida VITAE, molto utili per i biglietti da visita. Beh, più o meno ho detto tutto e se ho dimenticato qualcosa è certamente l’effetto del vino.


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