Premessa: sono abbastanza vecchio e soprattutto vecchio di questo mestiere.
Per questo sono uno dei tanti sfortunati che, intorno alla metà degli anni Ottanta faceva parte delle varie commissioni di degustazione dei vini biologici che allora erano di gran moda. Vi garantisco che la gamma di puzzi e difetti che ci mettevano sotto il naso era veramente imbarazzante. Il problema era che erano biologici.. e quindi non potevi buttarli semplicemente nel cesso, dovevi chiudere un occhio ed alla fine premiare il migliore, alias il meno peggio.
Sempre la mia vecchiaia (lavorativa) mi ha portato anche ad emicranie clamorose assaggiando a maggio frotte di biancucci italiani assaliti da maree di solforosa, fatti da produttori che avevano scoperto da poco tempo i pregi della moderna enologia.
La mia vecchiaia (sempre lavorativa) mi ha fatto vivere splendori e miserie di diverse denominazioni e soprattutto di tipologie enoiche. La barrique è stata come la mamma per i degustatori della mia generazione (con diverse giuste ragioni), mentre oggi è divenuta il demone da annientare (con diverse giuste ragioni). C’era un periodo in cui se non piantavi Cabernet e Merlot non potevi fare grandi vini, a cui è succeduto il periodo in cui se piantavi Cabernet e Merlot non potevi fare grandi vini. Gli autoctoni sono stati il faro per alcuni anni, salvo non capire (tra i produttori e non solo) cosa si intendesse per il termine autoctono. Mi fermo qui….
Inoltre vorrei cercare di comprendere se queste fasi (mode??) che si sono succedute nel brevissimo periodo di 25-30 anni siano avvenute anche nei più importanti paesi dove si produce e si consuma vino. Non credo di essere in errore se piazzo subito un NO a caratteri cubitali. La Francia ha digerito e metabolizzato in quasi due secoli i nostri ultimi 20-30 anni di storia. La Spagna sembra vicina ma dal punto di vista dell’informazione enoica è lontana anni luce. L’Australia e quasi tutto il nuovo mondo enologico si è sviluppato su concetti etico-qualitativi che non sono ne migliori ne peggiori dei nostri, sono solo diversi.
Si parla tanto di globalizzazione: le notizie globali sono però quelle portate nel mondo dai grandi media e ascoltate o lette da miliardi di persone. Il vino italiano non fa certo questo tipo di audience sui grandi network e tantomeno il modo del web italiano è solcato da milioni e milioni di lettori in ricerca di notizie “globali” sul vino italico. Insomma: anche se di lusso, (come la stragrande maggioranza del mondo del vino di qualità) siamo una provincia: di lusso, ma provincia. Il che vuol dire che viviamo una finta globalizzazione dove, accanto ad un Sassicaia conosciuto da diversi milioni di abitanti del globo fa riscontro l’impossibilità di molti di questi ad identificare su una carta dell’Italia la zona dove viene prodotto. Capisco: la globalizzazione porta con se il concetto di generalizzazione e di scarso approfondimento..ma questo è.
Inoltre: per giustificare questo o quel tipo di vino si è spesso usato (oggi forse più di ieri) il termine di evoluzione del gusto. Attenzione: la tanto decantata (non in un decanter…) evoluzione del gusto dovrebbe in realtà essere un processo lento e complesso che, nella sua forma “velocemente ibrida” si chiama moda. il primo passa attraverso cambiamenti molto lenti della società, dei rapporti anche economici tra individui, per non parlare di cambi e variazioni climatiche. Tutto questo necessita di tempo, di anni, per non dire di molte decine d’anni.
Il secondo invece è di una semplicità disarmante. Estremizzando: entri in un wine bar e chiedi “che c’è di nuovo? Cosa bevono tutti?”.
Con queste premesse mi voglio approcciare alla discussione sui vini (cosiddetti) naturali.
Inizio citando un bellissimo articolo di Maurizio Gily uscito sull’ultimo Porthos, in cui cerca di presentare i vari gruppi di produttori (cosiddetti) naturali. Articolo molto chiaro, preciso e profondo, pone un quesito grosso come una casa: fare vino (cosiddetto) naturale è un dogma di fede o un esercizio della ragione, della conoscenza e dell’esperienza? Faccio un esempio: è giusto che non usi un diserbante a basso dosaggio e per togliere l’erba faccia due lavorazioni consumando (ed inquinando) il doppio con il gasolio del trattore?
Mi sembra che quando si disquisisce di vini (cosiddetti) naturali si cammini su un pericoloso crinale, quello che divide la fede e la ragione, il gusto personale (anche “evoluto” ) e la moda,il “particulare” Guicciardiniano di un determinato momento e la visione ampia e generale dello storico. Credo che nessuno in questa discussione (io tanto meno) abbia in mano il Sagro Graal della verità. Per questo mi permetto di dire che non si può affermare che i vini (cosiddetti) naturali non sono per dilettanti, per neofiti del gusto, perché nel frattempo questo “gusto” si è sviluppato,inoltrandosi in campi che solo i grandi esperti possono comprendere. In primo luogo perché quelle stesse parole sono state usate in passato per caricare di significati mode più o meno passeggere (la barrique, il cabernet, il non cabernet, il biologico etc) ma soprattutto perché non fa bene allo stesso settore, creando un muro mentale che moltissimi consumatori non supereranno mai e relegando cosi i (cosiddetti) naturali in un ghetto che potrebbe soffocarli una volta passata l’ennesima evoluzione del gusto. Non è giusto anche nei confronti di quei produttori che hanno sempre avuto davanti a loro l’idea che un ottimo o grande vino debba essere buono ora e meglio dopo anni. Il concetto di bevibilità, di piacevolezza di un vino non è un qualcosa che serve solo ai neofiti, ma è una delle condizioni sine qua non del buon bere.
Diciamo pure che hanno questo e quel profumo, questa e quella caratteristica gustativa, che possono piacere o meno, ma non arrocchiamoci sul concetto “Tanto tu non puoi capire adesso” perché facendo così si rischiano sonore musate. Riprendendo quanto accennato sopra, vi ricordate quante volte, presentando (nel periodo di evoluzione del gusto che considerava la barrique il toccasana per ogni cosa) vini chiusi come ostriche è stato detto enfaticamente "..ora certi aromi non si esprimono, il legno è dominante, ma tra qualche anno…" salvo risentirli dopo anni e trovarli o morti o allo stesso punto di prima.
Sull’altro fronte è comunque sbagliato e non rispettoso del consumatore cercare di omologare il vino rincorrendo un “gusto” (ma quanti gusti ci sono??) facile, simile dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. l’enologia copiativa non è corretta perché è nel concetto stesso di vino il dover essere diverso da un luogo all’altro.
Insomma: produttori bravi, seri e onesti di buoni, ottimi vini fatti in maniera rispettosa ci sono in tutti e settori siano essi biodinamici o no, come al contrario esistono fior di farabutti che spacciano vini omologati per chicche particolari e puzze biodinamiche o biologiche per sentori unici del terroir.
Oggi tutti parliamo di questi vini (cosiddetti ) naturali senza un necessaria prospettiva storica che dovrebbe permetterci di inquadrarli per quello che sono: una sparuta minoranza (anche se significativa) tra i produttori di vino, che deve crescere e strutturarsi. Parlare solo di questi e soprattutto prenderli come metro di paragone rischia di far inquadrare la mosca ma non il bufalo su cui è appoggiata.
Sono il primo a dichiarare che “la sostenibilità” è un grande atout di un vino, che il rispetto del territorio è della natura è fondamentale, ma tutto questo può (e deve) essere discusso prima o dopo l’assaggio, non può essere il pilastro della degustazione stessa.