Stefano Berti, il Maestro di Ravaldino12 min read

Buon compleanno amore cucciolo. Ti stropiccio di baci.

 

“In quegli anni vivevo il mio mestiere in modo aggressivo, atletico, con un’esigenza compilativa che oggi reputo  senza senso: bere o acquistare una bottiglia premiata m’illudeva di essere un assaggiatore migliore, finendo spesso col sentirmi come il Giovanni Drogo di Dino Buzzati, impaziente di raggiungere la mia grandiosa Fortezza Bastiani, salvo accorgermi, una volta arrivato, che si trattava solo di una costruzione vecchia e superata”.

 

“Nella vita forse no, ma nel vino il pareggio esiste e può non essere noioso. Nel caso di Stefano Berti è perfino divertente”.

 

 

 

Uomini da tenersi stretti

 

Pietro Nenni, romagnolo di Faenza, diceva che i giovani spesso sono superficiali perché credono sempre che il mondo inizi e finisca con loro. È quindi assai probabile che non avesse mai incontrato uno come Stefano Berti, romagnolo di Forlì, che fin da ragazzo è sempre stato profondo, “centrato” e forse perfino calvo. Conosco Stefano da tantissimi anni, tanti quanti sono i giorni e i mesi che mi occupo di vino per lavoro, e ai miei occhi non è mai cambiato. Non solo per la precoce calvizie, ma per almeno tre qualità che è impossibile non riconoscergli (anche perché inconsuete): l’ironia, l’indulgenza e la libertà di essere sé stesso.

Oggi che la libertà reale è in forte contrazione ovunque, che gli spazi riservati all’intelligenza cedono via via il passo alla topografia della banalità oppure alle esigenze del denaro, c’è sempre più bisogno di uomini pensanti, capaci di dare un peso (e un senso) alle parole e ai gesti, di lasciare tracce personali e non allineate. Insomma, gli uomini come Stefano Berti è meglio tenerseli stretti, ora più che mai.

 

Il Maestro

 

I suoi colleghi lo stimano e a molti di loro ho sentito dire che “senza il Maestro, la Romagna (del vino) non sarebbe la stessa”. Hanno ragione. Non dico che sia insostituibile (Churchill diceva che i cimiteri sono pieni di gente insostituibile), ma necessario sì.

Necessario è il suo volto, che ispira complicità, invita alla confidenza e strappa un sorriso anche a dispetto di rughe profonde come ferite. Necessario è il suo piglio sornione, che maschera un’intelligenza sottile, di chi non tiene banco con parole superflue: semmai alle chiacchiere preferisce le immagini (merito di uno spiccato talento per la fotografia). Necessaria è la sua visione del vino (e forse del mondo), pragmatica e senza astratte intransigenze.

 

La prima volta

 

Mi ricordo bene, della prima volta che incontrai Stefano. Era stata appena pubblicata l’edizione 2003 della Guida del Gambero Rosso e tra gli outsider insigniti dell’allora ambitissimo “Tre Bicchieri” figurava Calisto 2001, alla seconda uscita commerciale. Incuriosito, andai a trovarne l’artefice in cantina. In quegli anni vivevo il mio mestiere in modo aggressivo, atletico, con un’esigenza compilativa che oggi trovo senza senso: bere o acquistare una bottiglia premiata m’illudeva di essere un assaggiatore migliore, finendo spesso col sentirmi come il Giovanni Drogo di Dino Buzzati, impaziente di raggiungere la mia grandiosa Fortezza Bastiani, salvo accorgermi, una volta arrivato, che si trattava solo di una costruzione vecchia e superata.

In verità quella volta il vino “tribicchierato” non era affatto male, ma a colpirmi fu soprattutto Stefano. A cui da allora mi sento legato da autentica stima, una stima senza riserve, sebbene nel tempo qualche divergenza d’opinione non sia affatto mancata. E vivaddio, aggiungo.

 

Le Virtù

 

Mi piace come Stefano si sia sempre dimostrato capace di tenere ferma la bussola dei buoni principi (in campagna, in cantina e credo nella vita) evitando i radicalismi, misurandosi con i fatti e dissimulando il peso di ogni riflessione attraverso una bella dose di leggerezza. Mi piace, di Stefano, l’umiltà con cui si racconta, la trasparenza, l’onestà, la misura: non si sente un artista né un salvatore del pianeta, ma un produttore di vino il cui percorso professionale è in continuo dialogo con le esigenze del mercato, senza con questo mai apparire, nemmeno lontanamente, prono al mercantilismo. Sono tempi in cui va di moda la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, ma Stefano non ci casca e continua a comportarsi dignitosamente, con onestà, adeguandosi ai suoi mezzi e alle sue capacità.

Nella vita forse no, ma nel vino il pareggio esiste e può non essere noioso. Nel caso di Stefano Berti è perfino divertente.

 

Ravaldino in Monte

 

Stefano Berti, classe 1959, è figlio di Urbano, impiegato, e di Margherita Fusconi, casalinga. La tenuta che oggi raccoglie la casa, la cantina e l’intero vigneto di proprietà, fu acquistata dal papà nel 1963. Siamo nella campagna di Ravaldino in Monte, ombelico di un triangolo che unisce Forlì, Meldola e Predappio, in una fetta di Romagna intermedia tra la prima e la seconda quinta collinare, tra gli appennini e il mare, dove il clima è prettamente continentale e le argille assumono colorazioni variegate, dall’azzurro al rosso passando attraverso tonalità ocra. Il podere era frequentato dalla famiglia Berti in modo perlopiù occasionale e rappresentava un’alternativa campestre alla residenza in città: vi si coltivava un po’ di tutto, senza ambizioni imprenditoriali. Spettò a Stefano, nel 1982, con un diploma di perito agrario appena conseguito all’Istituto Statale Garibaldi di Cesena, il compito di trasformarla in una vera abitazione “Scelsi di lasciare la città per starmene da solo, mi sentivo un privilegiato, ho sempre amato la libertà e l’indipendenza”. In verità cinque anni dopo smise i panni del lupo solitario e sposò Renata, insegnante: dalla loro unione nacque Clara, che ha di recente intrapreso una promettente carriera universitaria nell’ambito delle scienze internazionali e diplomatiche.  

 

L’azienda

 

Nel 2000 Stefano Berti fonda l’intrapresa enoica che porta il suo nome. E inaugura la sua attività di vignaiolo lavorando le uve di un vecchio impianto di Sangiovese che ha sempre regalato rossi dalla mole generosa.

Questa è l’origine delle prime due etichette commercializzate tra il 2001 e il 2002: Ravaldo e Calisto. Due vini ottenuti principalmente da un vigneto del 1968 (produttivo ancora oggi, benché penalizzato da numerose fallanze), a cui progressivamente sono stati affiancati altri appezzamenti più moderni e performanti, scegliendo densità fitte, cloni di ultima generazione e portainnesti qualitativi.

Quelli sono anni di fermento in Romagna, pensate che nel triennio 1998/1999/2000 nascono ben tredici aziende di buon valore (Ancarani, Berti, Bissoni, Ca’ dei Quattro Archi, Francesconi, Gallegati, Il Pratello, La Grotta, Morini, Tenuta Casali, Tenuta La Viola, Vigne dei Boschi e Zavalloni) e che in assoluto dal 1994 al 2004 i nuovi marchi romagnoli superano le cinquanta unità, ovvero  la fetta di gran lunga più consistente dell’attuale produzione regionale.

Attratto dal lavoro di Michele Satta a Bolgheri e più in generale dal dinamismo dei piccoli produttori di Montalcino e del Chianti Classico, Stefano sceglie subito una consulenza toscana per curare al meglio gli aspetti tecnici in cantina e in campagna: il Gruppo Matura capitanato da Attilio Pagli. Non è l’unico: prima e dopo di lui si affidano a consulenti  toscani (per periodi più o meno lunghi) Castelluccio, Fattoria Zerbina, Drei Donà La Palazza, Giovanna Madonia, Calonga, San Valentino, La Berta, Tenuta Santini, Fattoria Paradiso, Campo del Sole, Tenuta Casali,  Villa Trentola e Balia di Zola.

 

La gamma

 

Le prime uscite di Calisto e Ravaldo riscuotono notevole successo in regione: si tratta di vini maturati in legni di piccola di taglia, privi di defaillance dal punto di vista tecnico, estroversi e accalorati, solidi e carnosi. Se Ravaldo è più terroso e gastronomico, Calisto ama invece esibire il muscolo e qualche fronzolo lussuoso, alternando annate davvero ipertrofiche a versioni di maggiore armonia. Dal punto di vista produttivo e stilistico qualcosa è cambiato rispetto agli esordi, la confezione enologica è un po’ meno evidente, e ciò che si è sacrificato sul piano formale trova un parziale riscatto sul versante della fruibilità e del carattere. Un carattere che è geneticamente affine al DNA di Predappio, una delle sottozone romagnole di più accertata vocazione, nella quale la località di Ravaldino in Monte è stata giustamente inserita.

A partire dalla vendemmia 2005 il catalogo si arricchisce di una terza referenza: il Bartimeo, che senza smarrire l’ossatura tipica delle argille predappiesi, predilige un consumo più quotidiano.

Dopodiché tocca al versatile Nonà, ultimogenito tra i rossi “bertiani”, nato (senza solfiti aggiunti) nel 2013 e fin da subito capace di alleggerire la portata strutturale dell’intera proposta in virtù di una frugalità espressiva che non scade mai nella diluizione.

Chiude la serie il Sangiovese Rosato “Cipria”, all’esordio con la bella vendemmia 2016 e in uscita sul mercato proprio in questi ultimi sgoccioli d’inverno.

 

 

Gli assaggi

 

Il mio ultimo giro di ricognizione tra le colline di Ravaldino, propedeutico a questa monografia, è datato dicembre 2016, una dozzina di giorni prima di Natale. In quell’occasione, grazie all’impagabile complicità del padrone di casa, ho potuto stappare e assaggiare una vastissima panoramica di Sangiovese prodotti dal 2000 a oggi. Un’intera carriera distillata in poche ore e un percorso che rivela, al netto delle tipologie e delle annate prese in rassegna, la forte identità romagnola della proposta; se per romagnola s’intende, in modo più o meno condiviso, rossi dotati di notevole frutto (benché non particolarmente ricco di sfumature) e di impianto gustativo solido, la cui articolazione, appena percettibile in gioventù, risulta più evidente dopo un congruo affinamento in bottiglia.

Certo, gli osservatori più attenti sanno bene che esistono parecchie eccezioni espressive in regione, ma si tratta appunto di eccezioni, talvolta legate alle peculiarità specifiche di un territorio, talatra all’interpretazione del produttore. In chiusura di articolo segnalo le bottiglie più significative degustate in quella ridente mattina di metà dicembre, mite e soleggiata, che ricorderò a lungo.

 

In breve

 

Stefano Berti

Via La Scagna 18

Località Ravaldino in Monte

47121 Forlì(FC)

www.stefanoberti.it

bertiste@gmail.com

0543.488074/335.8440104

Superficie del vigneto: 6.5 ettari.

Varietà coltivate: Cabernet Sauvignon (0,5 ha; impianto del 1998); Merlot (0,2 ha, impianto del 1998); Sangiovese (5.8 ha: impianti del 1968, 1988, 1998, 2004).

Sistema di allevamento: cordone speronato.

Densità dei ceppi/ettaro: 5000 negli impianti più recenti, 2500 nei vecchi appezzamenti.

Portainnesti più diffusi: 420 A; SO4; KOBER 5BB

Superficie dell’uliveto: 1,5 ettari.

Altitudine della sede: 170 metri s.l.m.

Tipo di viticoltura: lotta integrata.

Tipo di raccolta: manuale.

Primo anno d’imbottigliamento: 2000.

Enologo consulente: Leonardo Conti (Gruppo Matura).  

Bottiglie prodotte: 30.000

 

Le cinque declinazioni del Sangiovese attualmente in commercio: Forlì Sangiovese Rosato IGP Cipria 2016 (100% sangiovese; acciaio; primo anno 2016); Romagna Sangiovese Bartimeo 2015 (100% sangiovese; acciaio; primo anno 2005); Romagna Sangiovese Superiore Senza Solfiti Nonà 2015 (100% sangiovese; acciaio; primo anno 2013); Romagna Sangiovese Predappio Ravaldo 2015(100% sangiovese; tonneau; primo anno 2000); Romagna Sangiovese Predappio Riserva Calisto 2013 (92% sangiovese, 8% cabernet sauvignon; tonneau e barrique; primo anno 2000).

Prezzi in enoteca e quantità prodotte: Bartimeo 7 euro (12.000 bottiglie); Cipria 9 euro (2000 bottiglie); Nonà 9 euro (3000 bottiglie); Ravaldo 11 euro (12.000 bottiglie); Calisto 18 euro (4000 bottiglie).

Visite in cantine: sempre, su prenotazione.

 

 

Le otto bottiglie da non perdere

 

Calisto 2013: Versione ben più ariosa e agevole rispetto alle precedenti edizioni, impeccabile nelle proporzioni, di minuzie sapide inusuali nella storia dell’etichetta. Il Calisto più elegante di sempre.

Ravaldo 2013: Se il patrimonio odoroso è ancora tutto da sviluppare, il sorso è invece privo di esitazioni, foderato quanto basta per evitare spigoli e ruvidezze eccessive. Chiude succoso, guardando con fiducia al futuro.

Bartimeo 2011: Carattere minerale tipico delle argille più tenaci e nitido ricordo di piccoli frutti rossi e neri. Bocca pressante e ben armonizzata, dal finale tonico nonostante una leggera sbavatura amarognola. Il migliore tra i Bartimeo finora prodotti.

Calisto 2009: La spontaneità non è la sua qualità migliore, in compenso possiede una struttura integerrima, scolpita da tannini fitti, maturi e innegabilmente predappiesi. Buon rapporto con l’ossigeno.

Calisto 2005: La quota di Cabernet Sauvignon è più varietale del solito e rende i profumi fin da subito gratificanti. Sorso invece assai “sangiovesista”, di pregevole ossatura, la dinamica è animata di bei contrasti, con un bonus di acidità e ritmo tipici del millesimo.

Ravaldo 2005: Vive un’evoluzione autentica e lo fa giocando su un registro di prevalente freschezza, tra la ciliegia, le radici e il sottobosco. Palato in sintonia, sapido, energico e allo stesso tempo accomodante, garbato. Una bella sorpresa.

Ravaldo 2002: È l’unica referenza commercializzata di una stagione tanto complicata quanto sorprendente alla prova del tempo. Per chi scrive si tratta del più buon rosso prodotto da Stefano Berti nella sua carriera (insieme a Calisto 2001, non presente in questa retrospettiva) e in assoluto il miglior Sangiovese romagnolo in quel millesimo di apocalittica piovosità. Naso e bocca perfettamente proporzionati, cilindrata sapida trascinante e chiusura piena zeppa di sapore. E chi se lo dimentica?

Calisto 2000: Non brilla per raffinatezza e originalità, la presenza del legno evoca gli stereotipi degli anni ’90, eppure si lascia bere con piacere, portando in superficie tutta la carnosa esoticità di un’annata calda ma non torrida – né eccessivamente asciutta. L’epilogo di questa carrellata è per contro l’inizio della carriera di Stefano Berti. Una carriera che ci auguriamo ancora molto lunga e ricca di successi. Grazie Maestro.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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