Champagnes in primo piano, ovviamente: grandi degustazioni di quelli della Côte de Bar et Montgueux e delle cuvées brut delle grandi marche, verticale di Deutz (Amour e William Deutz), Champagnes Pol Roger per la serie “Vie de Château”, con annessa verticale della cuvée Winston Churchill (fantastico 2002, 100/100), e, per chiudere, il “débat” tra Alexis Goujard e Pierre Vila Palleja intorno a una bottiglia di Clos des Goisses 2012 di Philipponnat, senza dimenticare la grande intervista di apertura a Michel Drappier. Ma c’è anche molto altro, a cominciare dai “nuovi signori” di Bolgheri (con prolungamento a Suvereto e in Val di Cornia), la degustazione della magnifica annata 2019 degli Châteauneuf-du-Pape, i dieci anni di biodinamica dello Château Pontet-Canet con annessa degustazione di tutte le annate del decennio 2010-2019 più il fantastico 2020 visti da Olivier Poussier.
Di più: due interessanti inchieste sui cavistes scopritori di vini (a firma di Patrick Jégu), in apertura, e sui “vins de garage” trent’anni dopo (bilancio e testimonianze raccolte da Jean-Baptiste Thial de Bordenave), e ancora il dossier dedicato agli armagnac per gli amanti degli spiritueux e gli “accords”, classici e inattesi con le ghiottonerie delle feste (dal foie gras al caviale e ai tartufi), proposti da Olivier Poels.
Non potendo ovviamente soffermarmi su tutti i piatti di un menu così ricco, mi soffermerò un po’ di più sulla degustazione degli Châteauneuf-du-Pape e sugli Champagnes della Côte-de-Bar, raramente in primo piano anche sulle riviste francesi, entrambi oscurati dai grandi crus di Bordeaux e Borgogna e dagli Champagnes delle regioni più celebrate, dalla Montagne de Reims alla Côte des Blancs.
Lo Châteauneuf-du-Pape è come è noto la star del Sud del Rodano, per quanto anche altre denominazioni, come Vacqueyras e soprattutto Gigondas abbiano notevolmente accresciuto la loro popolarità rispetto a qualche anno fa. L’annata 2019 è stata particolarmente brillante nel territorio di Châteauneuf: i vini di questo millesimo sono, come sempre, nelle annate felici, ricchi, potenti, solari, ma anche straordinariamente equilibrati, nonostante le gradazioni importanti e una densità tannica impressionante. Vini di impronta sudista, ma di sorprendente freschezza e finezza, buoni già adesso,e nello stesso tempo destinati a evolvere per parecchi decenni acquistando ulteriore complessità. La grenache è naturalmente regina da queste parti, ma ciascun domaine ha la propria ricetta, e alle cuvée monocépage, elaborate da una singola varietà, fanno da contraltare altre che risultano dai più vari assemblages, ai quali possono concorrere, tutte o in parte, le 13 varietà incluse nel disciplinare. Vi sono approcci diversi, anche nella scelta di elaborare una cuvée unica, oppure nella loro moltiplicazione secondo le differenti parcelle a partire da cui sono state prodotte.
Tra i Domaines che hanno scelto il primo approccio, sono il Clos des Papes (99/100 la sua Cuvée Unique) e Le Vieux Donjon, di esemplare classicismo (98,5/100). Su livelli molto elevati sono anche altri Domaines meno conosciuti, come il Domaine Font de Courtedune, la cui cuvée unica raggiunge anch’essa i 98,5/100, e quella che rappresenta una delle grandi sorprese della degustazione, il Domaine Charvin, la cui Cuvée Unique, con 99,5 punti giunge a sfiorare il tetto dei 100/100: solo grappes entières e cemento, ma senza dogmatismi. Risultati eccellenti si riscontrano ovviamente tra gli specialisti delle cuvées parcellari. 99,5/100 per il Vieilles Vignes del Domaine de Marcoux, 99/100 per la Cuvée du Papet del Clos-du-Mont Olivet, 98,5/100 alla cuvée XXL del Domaine de la Janasse , al Colombis e al sontuoso F601, cinsault in purezza, del Domaine de Saint-Préfert.
Veniamo ora agli Champagnes dell’Aube , che con i loro poco più di 8.000 ettari sui 34.000 dell’intera Champagne, approvvigionano per il 60% le grandi Maisons de négoce della Valle della Marna, come Taittinger e Moet & Chandon. Poggiando di fatto su una vena kimmeridgiana, la stessa di Chablis , il terroir di questa regione è più simile ai suoli argilloso-calcarei borgognoni , che alla craie della Champagne. Un terroir da chardonnay, ma dominato dal pinot noir (qui oltre l’80% delle varietà coltivate contro meno del 14% per lo chardonnay), con l’aggiunta pinot meunier e del tocco originale del pinot blanc. Più “sudisti” e rustici di quelli della Valle della Marna, gli champagnes dell’Aube mostrano, nei loro pinot nero, una fisionomia borgognona, più fruttata, mentre gli chardonnay si propongono con una maggiore rotondità e aromi di agrumi maturi.
Quanto al pinot bianco, aggiunge un tocco di esoticità. Il susseguirsi di annate solari ha spinto i vignerons a ricercare le vigne esposte a nord per recuperare snellezza e riequilibrare la concentrazione naturale dei loro vini. Smarcandosi dalla tradizione della Champagne, centrata sull’arte degli assemblages, sono sempre più numerose le cuvée di una sola annata, parcellari e , spesso, da una sola varietà. La valutazione della RVF: tra i blanc de noirs spicca il Brut Nature Papillon si Ruppert-Leroy, in effetti un 2018 parcellare (Fosse- Grely a Essoyes), 94/100, mentre un punto al di sotto sono l’Austral 2018 di Clandestin, il riserva perpetua Les Grandes Côtes di Pierre Gerbais e la cuvée Fidèle di Vouette & Sorbée.Tra i blanc de blancs il primato va a uno chardonnay 100% di Vouette & Sorbée, il Brut Nature Blanc d’Argile 2017, 94/100, seguito a quota 92 del Blanc de blancs extra-brut di Robert Barbichon , assemblage di chardonnay (63%) e pinot blanc delle annate 2014 e 2015.
Infine, tra le cuvées d’assemblage, spuntano 92/100 quattro cuvées: la Clarevallis bio di Drappier, la Trois cépages 2017 di C.H. Piconnet (40% pinot noir, 35% pinot blanc e il resto chardonnay), il Brut nature réserve perpétuelle di Ruppert Leroy, il Portlandia 2017 (chardonnay e pinot noir di una stella parcella portlandiana pressati e vinificati insieme ) di Val Frison. Come si comportano gli champagnes provenienti da annate più vecchie affinate più a lungo? Benissimo: 95/100 per il Sensation 2002 di Vincent Couche, il Sonate 2012 di Fleury, il Sève 2014 di Olivier Horiot e l’altra sua cuvée, Cinq sens 2014.
Solo un cenno ai vins de garage 30 anni dopo. Il primo è stato lo Château Valandraud di Jean-Luc Thunevin a Saint-Émilion. Ispiratore dei garagiste, il mitico Château Le Pin, a Pomerol, con la sua prima micro-cuvée con le malo effettuate in barrique. Valandraud, con Croix de Labrie e Gracia rappresentano il terzetto originale dei garagisti di Bordeaux, poi seguiti da altri. L’eco del movimento, se si può chiamare così, è stata forte negli Stati Uniti , e si parla anche di un vin de garage à l’italienne, con il Bolgheri di Niccolò Marzichi Lenzi e sua moglie Joy, che hanno iniziato la produzione del loro vino nel 2012.
Un cenno anche a Bolgheri, visto che l’abbiamo citata. Non capita spesso che una rivista francese dedichi uno spazio così ampio (14 pagine) a dei vini italiani, anche se la Toscana è certo la regione vinicola più popolare insieme con il Piemonte. Per la verità Poussier e Petronio, che firmano insieme l’articolo, non si limitano ai rossi bolgheresi , ma si allargano alla Val di Cornia e agli IGT toscani del settore nord, tra i quali i vini di Bibbona. Ovviamente i nomi più conosciuti (Sassicaia, Ornellaia, Guado al Tasso, Ca’ Marcanda, Tenuta Argentiera e Castello di Bolgheri, per citarne alcuni) abbondano, ma c’è anche qualche nome nuovo, come la Tenuta Di Vaira di Dario Di Vaira, già conferitori per Antinori, e oggi produttori in proprio (95/100 per il Bolgheri superiore 2018) e Serni Fulvio Luigi a Castagneto Carducci, fino a poco tempo fa produttore di sangiovese “en vrac” , poi di rossi a base di cabernet (impiantato nel 1998) di grande bevibilità (92/100 per due suoi Bolgheri rossi , l’Acciderba 2018 e il Tegoleto 2019). Speciale apprezzamento è espresso dagli autori, oltre che all’icona Sassicaia in verticale, per Grattamacco e soprattutto per Duemani, di Luca D’Attoma ed Elena Celli (il Suisassi 2018, 94/100, è per loro uno dei migliori syrah italiani in assoluto.
Altro? Oltre agli altri articoli già citati su cui non posso soffermarmi per ragioni di spazio e alle consuete rubriche e alle pagine dei columnist, mi limiterò a citare il terroir del mese (il poco conosciuto ma interessante Castillon- Côtes de Bordeaux), il “grand vigneron de demain”, il sempre più osannato Charles Lachaux, il confronto tra due rossi di Pessac-Léognan, gli Châteaux Larrivet- Haut Brion e Les Carmes Haut-Brion e la bottiglia mitica (l’Unico 1942 di Vega Sicilia). Ah, dimenticavo: il campionato del mondo di degustazione alla cieca organizzato dalla RVF: trionfatori gli assaggiatori ungheresi, che hanno messo in fila tutti gli altri (l’Italia? Decima).