Stampa estera.La Revue du Vin de France, n.649: vitigni proibiti e bianchi della Loira8 min read

Questa volta sono i bianchi dell’Anjou a spiccare in copertina, seguiti dai Languedoc “d’altitudine”: in pratica le due grandi degustazioni seriali di questo numero . Poi: la riscoperta delle varietà di uva proibite e i grandi (vini) di Spagna. E naturalmente molto altro. L’articolo più ghiotto (in senso letterale)? I vini per accompagnare i migliori prosciutti d’Europa (sul prosciutto di San Daniele la RVF raccomanda uno chardonnay dello Jura sous voile).

Cominciamo dagli chenin blancs dell’Anjou (ne parlano Pascaline Lepeltier e Alexis Goujard), o per meglio dire l’Anjou noir, non per il colore dei vini ma dei suoli, nei quali abbondano scisti, ardesie, spiliti ed altri tipi di roccia che hanno superfici scure, in contrasto con i calcari e le marne di color crema, grigi o giallastri del Bassin Parisien: corrisponde all’area ovest della regione, principalmente a sud di Angers, e pressoché esclusivamente sulla riva sinistra della Loira. Famoso soprattutto per i suoi vini moelleux da uve chenin blanc, ha subito il loro declino commerciale, specie dopo la seconda guerra mondiale, per i fenomeni che ben conosciamo: la scelta di ripiantare cloni produttivi, su terreni idonei alla meccanizzazione, l’abbandono delle selezioni, gli eccessi delle rese, e ancora troppo zolfo e troppa chaptalisation.

La svolta è venuta tra gli anni 80-90, quando, anche grazie alla comparsa di una nuova generazione di forti personalità (da Patrick Baudoin a Mark Angeli e a Richard Leroy, per fare qualche nome), si è finalmente   imboccata la strada del ritorno alla qualità. La domanda di vini liquorosi era però ormai in forte diminuzione, e restava il grosso problema di che fare nelle annate in cui la pourriture noble stenta a raggiungere la giusta concentrazione. La loro intuizione è stata quella di tentare anche sui loro suoli scistosi la strada degli chenin secchi, così come si producevano sul tuffeau della vicina Saumur,e, poco più lontano, a Vouvray e Montlouis. Non era un percorso facile e sono stati necessari diversi anni per trovare le giuste soluzioni. Forse meno cesellati degli chenin del Saumurois, questi dell’Anjou appaiono comunque ricchi di fascino, con aromi di frutta gialla matura, mela cotogna, dalle eleganti note fumé e di zafferano.

 

La varietà dei terroirs, dove dominano le scisti, mescolate a spiliti, gres, quarzo, carbone, sabbie e persino calcari del Quaternario, ha favorito la nascita di vini  molto diversi da una parte all’altra del Layon, con una grande diversità di stili, e molti produttori hanno adottato la denominazione un po’ ribelle di  “Vin de France” per sperimentare liberamente  vie nuove. La viticoltura è sempre più bio o biodinamica e la relativa accessibilità del costo della terra ha favorito l’insediamento di giovani talenti alla ricerca di espressione.

A Savennières brillano quelli che possono considerarsi i pionieri degli chenin secchi dell’Anjou , a partire dal celebre domaine di Nicolas Joly (95/100 per il suo Coulée de Serrant 2019 e 92/100 il suo Savennières Roche aux Moines della stessa annata), al Domaine Aux Moines (94/100 per il Savennières Roche aux Moines 2018) e al Domaine du Closel (93/100 per il suo Clos du Papillon 2018  e 92/100 per l’altro suo Savennières, Les Coillardières 2018).

Ma se Savennières è stata la culla degli chenin secchi dell’Anjou, la loro reinvenzione è avvenuta soprattutto nel cuore del Layon, dove i “ribelli” Mark Angeli (98/100 al Vieilles Vignes des Blonderies 2017 della Ferme de la Sansonnière, Richard Leroy (98/100 per Les Noëls de Montbenault 2018) e Stéphane Bernaudeau (97/100 per la cuvée Les Onglés 2019) firmano vini di grande personalità, che hanno ottenuto punteggi monstre nella degustazione.

Tutti Vin de France, diversamente da quanto accade a Savennières, dove sono pochi a rinunciare all’AOC per le loro cuvées. Ma altri nomi da non dimenticare sono quelli di Patrick Baudouin, che, dopo aver spinto all’estremo l’espressione degli chenin moelleux,  ha elaborato una serie di vini affascinanti  da selezioni parcellari , il Domaine Mosse, Catherine e Philippe Delesvaux ed altri. Poi ci sono i giovani, che la RVF chiama “Les fantassins de la nouvelle garde” dell’Anjou noir per la loro audacia.  Non senza alcune figure di spicco. Risaltano  i 96+/100 dell’Anjou blanc Les Faraunières 2016 del Domaine di Andrée e Stéphane Erissé, ma , tra gli altri nomi più interessanti, ci sono Olivier Lejeune (Clos Plantes) , Julien Delrieu e Bertin-Delatte, il Clos Galerne di Cédric Bourez, il Domaine Thomas Batardière, del giovane sommelier “innamorato delle scisti” .  Molti dei loro vini hanno raggiunto valutazioni assai significative.

Mark Angeli

Poi, naturalmente, ci sono i grandi Domaines, quelli che superano i 20 ettari di proprietà (da queste parti sono tanti), che , ripresi dalla nuova generazione  o da nuovi proprietari ambiziosi, cercano nuove strade, anche convertendo massicciamente le loro vigne alla coltivazione biodinamica: il Domaine Ogereau , che, conosciuto soprattutto per i suoi Coteaux du Layon e Quarts de Chaume liquorosi e per i suoi deliziosi cabernet  d’Anjou rosé, ha intrapreso con successo la strada degli chenin secchi, e poi  Terra Vita Vinum, il Domaine Belargus, il Domaine dela Bergerie, lo Château de Plaisance. Un piccolo capitolo a sé è costituito dai vignerons di quei terroirs che rappresentano delle vere e proprie piccole isole di calcari giurassici nel mare scistoso dell’Anjou che elaborano degli chenin dal profilo più affilato, dal bouquet di agrumi dolci . Un esempio: a Oiron Benoît Blé e Nicolas Reau fanno rivivere lo storico vignoble del Thouarsais , dimenticato dopo la fillossera.

La seconda degustazione è più curiosa: assaggiare alla cieca i vini di una regione del Sud, nel contesto sempre più bruciante del riscaldamento climatico, prodotti in altitudine. Si, perché sono diverse le zone della Languedoc  (Terrasses du Larzac, Pic Saint Loup, Faugères, ad esempio) nelle quali si produce vino in altitudine. L’altitudine, si sa, rende i vini differenti, più freschi, con una migliore bevibilità, con tannini più morbidi. Le maggiori escursioni tra giorno e notte favoriscono una maturazione lenta delle uve preservando l’acidità. Ecco allora l’idea di una degustazione che, prescindendo dalle appellations, prendesse in esame i vini prodotti ad un’altitudine minima di 250 metri.

Caroline Furstoss (specialista di vini alsaziani) e Idelette Fritsh hanno dunque assaggiato 266 vini bianchi e rossi di tutte le appellations della Languedoc e li hanno raggruppati semplicemente in base all’altezza delle vigne dalle quali provengono. Tre le categorie: da 250 a 300 metri, da 300 a 350 e oltre i 350 metri di altitudine. Terrasses du Larzac, Saint Chinian , Pic Saint Loup, Faugères, Minervois, Languedoc Montpeyroux, presentano tutte vini di altitudine molto interessanti.

Spiccano i 96/100 del Lous Rougeos 2018 di Mas Jullien, un Terrasses du Larzac rouge bio  polposo e dai magnifici tannini, prodotto ad un’altezza superiore a 350 metri. Lo stesso Domaine  firma una cuvée prodotta più in basso (250-300 m.) , il Carlan 2019, nella stessa AOC (95/100). Nella fascia più alta di 350 m. e più sono ben sette vini a raggiungere i 94/100: due ancora dalla stessa AOC Terrasses du Larzac (Clos Maïa, Mas Haut Buis), ma altri da Faugères  (Mas Lou), Pic Saint-Loup  (Château de Cazeneuve) e altre appellations . Anche i terroirs in altitudine di Limoux, Saint Chinian ,  Minervois e Corbières offrono eccellenti cuvées  valutate  oltre i 90 punti. Oltre a quello citato di Mas Jullien, sono però numerosi i vini ad alto punteggio anche nelle fasce di altitudine inferiore. Tra questi spicca, con i suoi 94 punti, un Minervois rouge del Domaine Le Loup Blanc,  e sono diversi i vini a quota 93 in entrambe le fasce di altitudine inferiore.

Noah, concord, isabelle, jacquez, baco noir sono per noi nomi sconosciuti. Sono alcune varietà ibride antiche che rappresentano ormai una Francia occulta difesa da alcuni ostinati vignerons  che l’INAO , dopo la nascita delle AOC, vorrebbe distruggere. Sono in particolare sei varietà (noah, isabelle, othello, jacquez, clinton e hermemont) nate dall’incrocio di ceppi europei (di vitis vinifera) con altri di provenienza americana (vitis labrusca, riparia…), proliferate dopo il flagello della fillossera per ripopolare le vigne decimate, per la loro maggiore resistenza. Sono state messe al bando nel dicembre 1934 con il divieto assoluto di coltivarle. Queste varietà illegali, accusate delle cose più terribili (di essere cattive, di far diventare pazzi) hanno trovato però molti difensori tra i vignerons delle regioni enologicamente più periferiche, come le Cevennes, nella Vandea, nell’Île de France, a Corrèze, nell’Ardèche. Le ragioni della loro proibizione sono però diverse: perché erano molto produttive e vi era l’esigenza invece di tenere alta la qualità senza toccare i grandi mercanti che miscelavano vini africani (dell’Algeria) e i vini di bassa qualità del Midi. I difensori delle varietà proibite apportano tra le ragioni della loro difesa, oltre al desiderio di ritrovare un gusto perduto, la loro maggiore resistenza alle malattie e alle infezioni, che rende non necessari i trattamenti, e inoltre la loro grande ricchezza di antiossidanti che permette di non usare o limitare al minimo l’impiego di zolfo. Sono molti gli amatori, tra questi anche, insospettabilmente, uno dei cogérant del Domaine de la Romanée-Conti, che non manca di servire alla sua tavola un vino proibito. Sono nate associazioni, come Mémoire de la vigne, nelle Cévennes. Recentemente il film-documentario “ Vitis prohibita” di Stéphan Balay [i], che auspica una legislazione più flessibile, ha riscosso molta attenzione.

Non potendo soffermarmi oltre su questo affascinante argomento (ricordo la degustazione di vini da varietà dimenticate apparse sulla RVF qualche tempo fa,  passo a parlare rapidamente del resto. Molti altri sono i temi interessanti di questo numero: oltre all’articolo di Olivier Poels sugli “accord” vini-prosciutti e salumi d’Europa,  l’articolo di Fabien Humbert sui “cavistes chic” che migrano sempre più numerosi sul web,  liquori bio, lo stile flamboyant di Dubosq a Haut-Marbuzet con annessa verticale (al top, con 96/100, ben 7 millesimi : 1970, 1982, 1990, 2009, 2010, 2016 e 2018), il confronto tra i Saint-Émilion grand cru dello Château Jean Faure e Beau-Séjour Bécot nelle ultime sei annate dal 2014, il terroir dello Jurançon e il “soffio dei Pirenei”.

[i] Su vitis-prohibita.com scaricabile anche su www.fruitsoublies.org. Da vedere

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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