Roero: il vino della campagna colorata3 min read

Credo di sfondare miliardi di porte aperte dicendo che il Tanaro non è certo il Rio della Plata ed Alba non assomiglia per niente a  Buenos Aires. Però una volta lasciata la capitale delle langhe ed arrivati “oltre Tanaro” sembra di essere in un altro mondo, il cui nome non è Uruguay ma Roero.

Spingo il paragone oltre ogni ragionevole limite e dico che se  il termine Uruguay (derivato  dall’omonimo fiume) vuol dire  “Fiume degli uccelli colorati”, la terra del  Roero potrebbe essere chiamata la “terra dalla campagna colorata”. In effetti arrivando dalla Langa i colori della natura si moltiplicano a dismisura, comprendendo non solo vigneto ma campi, boschi, seminativi, alberi da frutto e compagnia cantante.  Il tutto in un terreno che spesso si  impenna ripidamente in verdi colline.

In queste colline, come detto,  si produce ANCHE vino che nella versione rossa prende il nome dalla “ terra dalla campagna colorata”. Il Roero è un rosso di cui rischiamo di non parlarne mai, schiacciato com’è tra Barolo e Barbaresco. Anche durante le manifestazioni ufficiali gli spazi dedicati a questo figlio del nebbiolo vengono quasi “sopportati” per poter poi passare a qualcosa di più consistente.

Basandomi sugli assaggi fatti durante  la prima edizione di Nebbiolo Prima cercherò di tracciarne un profilo. Il problema è che un solo profilo non basta, ce ne vogliono almeno due, uno per i Roero su terreni prevalentemente sabbiosi ed uno per gli altri. I primi sarebbero i miei vini perché profumano di rosa e viola ed hanno molto meno corpo e struttura dei cugini nati dove argilla e scheletro dominano. Purtroppo il mercato quando pensa ad un rosso piemontese si immagina Mister Muscolo messo in bottiglia e quindi anche i Roero hanno dovuto partecipare a quell’insulsa corsa verso il wine body building che per fortuna sembra, in parte, stoppata.

I risultati ottenuti in passato da questo modo di concepire il vino sono stati però disastrosi, con vini iperlegnosi, dotati di tannini stizzosi, avendo inoltre come corredo un’acidità non certo adatta a portare pace in questo quadro.  Assaggiavo e passavo oltre, anche se si trattava di vini osannati da molta critica: nello stesso tempo non  vedevo crescere qualitativamente la tipologia dei “profumati” e così ad un certo punto ho messo i Roero DOCG (nel frattempo era successo anche questo) non dico nel dimenticatoio ma quasi.

La trentina di assaggi fatti a maggio, pur non facendomi toccare il cielo con un dito, ha ridestato l’interesse presentandomi almeno un panorama sufficientemente chiaro. Oggi come oggi la media qualitativa dei Roero deve ancora crescere, però della strada è stata fatta. Infatti, pur se una media stelle di pochissimo superiore alle due (2.08) non è certo il massimo , mi ha fatto piacere notare miglioramenti anche tra i produttori delle zone più sabbiose, che di solito erano (in media, perché qualcuno molto buono c’era sempre) i fanalini di coda della denominazione. Forse hanno sentito che il vento sta girando ed il mettere in campo vini eleganti e profumati “rischia” di essere un’arma vincente sul mercato.  Altra nota positiva riguarda la diminuzione generalizzata dell’eccessivo uso di  legno ed anche tra i Roero “muscolari” si trovano equilibri prima insperabili.

Da un punto di vista numerico vi sono almeno 10-15 aziende che producono bene e la speranza è che tale numero aumenti, coinvolgendo sempre più produttori giovani.

Dal mio umile punto di vista spero che l’evoluzione qualitativa del Roero punti su vini più da bere che da degustare, prodotti più immediati, profumati e piacevoli. Per chiarirsi: più varietali e complessi di un Langhe Nebbiolo e molto meno baldanzosamente strutturati  di un Barolo.

Insomma: aspettiamo fiduciosi notizie dalla terra della campagna colorata… almeno per un po’.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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