Riflessioni sul mondo del vino di qualità10 min read

Siamo veramente onorati di ospitare (e speriamo di continuare a farlo) alcune riflessioni di Silvano Formigli. Questo schietto chiantigiano nel mondo del vino di qualità sin dagli anni Settanta è stato, nei primi tempi dell’avvicinamento al vino, uno dei nostri riferimenti. A lui dobbiamo i vini per il primo corso di degustazione che organizzammo nel 1988, a lui ci siamo spesso rivolti per chiedere aiuti o consigli. La sua Selezione Fattorie è e resta il primo modello per far conoscere e distribuire vini di qualità di piccole aziende. Silvano conosce tutto e tutti in questo mondo e la sua esperienza è inferiore solo alla sua competenza. Con queste riflessioni inizia una collaborazione che speriamo duri per molti anni. Grazie Silvano!

 

E’ vero che i produttori di uva italiani dovevano riscattarsi da decine di anni di dominio del mercato da parte di pochi mediatori e commercianti, che facevano il “buono ed il cattivo tempo” (normalmente il basso prezzo che ha portato alla fuga dalle campagne nel dopoguerra per lo scarso reddito), però mi sembra che la poca memoria storica ci porti a fare degli errori di strategia tecnica e commerciale.

E’ raro trovare aziende che pianifichino in origine un programma tecnico-commerciale per l’impianto (o reimpianto) dei propri vigneti. Questo vorrebbe dire coinvolgere fin dall’inizio un bravo agronomo, un bravo enologo,  un bravo commerciale: in altre parole una squadra. Tale pianificazione porterebbe anche a creare in azienda (se non c’è) un riferimento (che sia il titolare, il figlio, o un dipendente) il quale segua la quotidianità del contatto con la natura ed il prodotto che essa offre.

Normalmente invece si fa il vino, magari con un bravo enologo e poi si affronta il mercato secondo le personali esperienze, spesso solo locali.

Sotto questo punto di vista le cose, negli ultimi 25-30 anni non sono cambiate molto.

Dalla fine degli anni settanta, dopo la crisi quantitativa dovuta agli sviluppi dei vigneti specializzati ed agli errori di disciplinari “troppo permissivi” in termini di quantità e di tipologia di prodotto, si è assistito ad un trasformazione delle aziende venditrici di uve o di vino sfuso in imbottigliatori. Molte volte purtroppo senza un apporto enologico, anche perché in quei tempi l’enologo bravo lo avevano solo le grandi cantine di imbottigliamento. Per la verità esistevano gli enologi-laboratori, che davano i rimedi a “frittata fatta”. Da qui la frase: “l’enologo fa il vino con le polverine”. Purtroppo questo primo risveglio di voglia di qualità, con l’inserimento iniziale  dell’enologo in azienda (raramente affiancato da un bravo agronomo) che aveva portato anche ad una ripresa dei prezzi di mercato, viene brutalmente interrotto dallo scandalo metanolo del marzo 1986, pochi giorni prima del Vinitaly.

Io definisco lo scandalo metanolo lo spartiacque tra il passato ed il futuro del vino: dopo un anno difficile assistemmo ad una costante crescita qualitativa, a leggi più severe e più tutelative, ad un nuovo interesse sul vino italiano anche all’estero, in definitiva all’acquisizione dell’immagine di una nazione che produce anche vini particolari e non solo di massa.

Gli anni 90 per vari motivi tecnico-culturali sono stati dal mio punto di vista gli “anni d’oro” degli ultimi 100 anni del mondo del vino di qualità italiano. Questo però ha falsato il mondo del vino  in maniera notevole portando a valutazioni ed a  investimenti che non tenevano assolutamente conto degli errori del passato e della giovinezza di questa rinascita.

Quindi un prolilferare di aziende e di etichette. Molti puntavano solo su grandi vini (e non sempre lo erano) su prezzi alti, dimenticando il vino da consumo,  entro certe fasce di prezzo che invece il mercato ancora chiedeva (ma secondo i produttori non ci stavano con i costi). Poi è bastato l’inizio della crisi dal 2002 ed il contemporaneo problema dei consumi con l’entrata in vigore dell’Euro, che tutto si è ridimensionato. Si è visto  proporre grandi vini con promozioni speciali (magari solo in USA per non farlo notare in Europa) oppure vendite mascherate con “rimanenze” lasciate, secondo questi, a disposizione dei grandi intenditori.

Inoltre ogni annata era ottima e l’ultima la migliore delle precedenti.

Mi ricordo di un enotecaro di Los Angeles  grande amante del vino italiano a tal punto che vendeva solo vini da vitigni autoctoni italiani; eravamo al Vinitaly del 2005. Mi disse: “Visitando il Vinitaly ho chiesto com’era l’annata 2002 a diversi produttori: tutti mi hanno risposto che è stata un’annata difficile con molte piogge anche in fase vendemmiale…. ma la mia azienda è in una zona sassosa ventilata e di scarsa piovosità ed ho fatto un ottimo vino, sentilo…… Poi ho chiesto lumi sull’ l’annata 2003: un’annata siccitosa, molto calda, con rischi di blocco maturazione etc, ma la mia azienda ha terreni che trattengono bene l’umidità, è in una zona fresca, poi ho avuto qualche pioggia e quindi ho fatto un ottimo vino: sentilo……E l’annata 2004 che esce ora sul mercato? La migliore finora prodotta……” Un amico vero del vino italiano ci fa riflettere.

Il mercato ha fatto una severa selezione ed ha premiato comunque le aziende che avevano dimostrato una costante serietà tecnico-commerciale ed una qualità di almeno 15 anni. Queste dal mio punto di vista hanno avuto pochi problemi: c’è stata l’eccezione della zona del Brunello, che meriterebbe un capitolo a parte. Il resto ha dovuto ridimensionarsi o dovrà farlo se vuole reggere il mercato.

Occorrerebbe valutare come, accanto ad un grande miglioramento tecnico (dal mio punto di vista c’è ancora tanto da fare dal lato agronomico), ci sia stata troppa spinta su vitigni alloctoni. Selezionati in altre zone ed impiantati nelle nostre hanno dato subito ottimi risultati: ma da noi il mercato si attende (e può essere une delle poche strade di salvezza tecnico commerciale e personalizzazione della proposta) ottimi risultati da vitigni autoctoni. In questo la ricerca deve andare a spron battuto per modificare gli errori di mentalità quantitativa fatti con gli impianti degli anni ’60-’70 ed ottenere risultati che vadano incontro ad una vera qualità, oltre che tipicità.

Su questo i tecnici insegnano quanto ci sia da fare per far crescere la cultura di buona parte dei produttori su temi come la vera bassa resa ad ettaro, la vera bassa resa a pianta, l’estrema attenzione ai tempi di vendemmia, etc. Siamo a metà settembre e si vedono viaggiare carrelli di uva (non Merlot che può essere maturo), ma di Sangiovese che certamente avrebbe bisogno di altri giorni di maturazione. Si è dimenticato che il mese della vendemmia è sempre stato Ottobre: ora ai primi di agosto  si fanno articoli e riprese televisive ad esaltare vendemmie anticipate, certo di vitigni precoci in zone calde, ma fuorviando il consumatore da una informazione reale e stimolando tutti a rischiare di meno con tempi lunghi di maturazione. E’ chiaro che più andiamo avanti e più si rischia, ma questo da sempre ha fatto parte  del gioco del viticoltore e forse proprio questo darebbe la vera diversità alle annate. A proposito: sarebbe il momento di scartarne anche qualcuna per produrre certi vini, esaltanti solo nelle vere grandi annate. Mi si dirà: il riscaldamento del pianeta…….

Certo noi abbiamo le Alpi, gli Appennini, siamo circondati da mari caldi e non da oceani freddi: tutto questo ci favorisce, ma dobbiamo arrivare ad una vera caratterizzazione se vogliamo farci notare o, più semplicemente, salvare.

Da commerciale dico ai produttori italiani: “Vendere vino non è solo “basta vendere”: bisogna farlo con delle strategie, non cedere a compromessi, avere una linea costante e un obiettivo a lunga scadenza. Questo perché le vigne non producono solo un anno ma tutti gli anni e dovrete lasciarle ai vostri figli e nipoti con una storia aziendale che sia premiante e premiata dal mercato.

Vi posso dire per esperienza come aziende che hanno operato nel rispetto tecnico con qualità (quindi seri investimenti in vigne, cantina, mezzi ed uomini), con tipicità vera dei vini, con un’azione commerciale corretta (cioè non si sono fatti prendere troppo dal momento positivo e/o negativo) e con visione a lunga scadenza, non abbiano avuto e non hanno crisi. Certo il momento è meno facile di dieci anni fa, ma sono comunque rispettate ed i loro vini richiesti.

A chi si inserisce ora sul mercato ripeto quanto detto all’inizio: faccia un iniziale programma con un bravo agronomo, un enologo ed un responsabile commerciale. Le due ultime figure saranno utili alla distanza, in particolare il commerciale è la figura meno considerata: ci si rivolge a lui quando non si è stati in grado di collocare il prodotto e forse…… è troppo tardi. Non dimentichiamo che da un nuovo vigneto ci si mettono minimo dieci anni per fare qualità: lo stesso tempo richiede il mercato, se si vuole costruire un serio progetto.

Il vino italiano ha ancora una forte immagine all’estero, cosa che non aveva trent’anni fa. In Italia l’attenzione al vino è cresciuta sensibilmente: si sono affermate le donne, nuove attente degustatrici, sono nati tanti locali. Insieme a questa crescita di interesse del consumatore trovo un’aumentata proposta, raramente seguita a livello culturale e/o professionale.
Quanti investono in un condizionatore (o frigo) da vini rossi? Quanti in una giusta temperatura di servizio dei vini (che non vuole dire bianco freddo e rosso caldo)? Quanti  nel formare una persona addetta ai vini, per dare il giusto messaggio al consumatore?.

Oggi il vino ha un costo (è finita l’epoca del 1982 quando nei Bar del Chianti si serviva un bicchiere di acqua a 200 Lire e allo stesso prezzo un bicchiere di vino) per rispettare il serio lavoro che richiede, ma altrettanta rispetto deve essere data al consumatore che lo paga, con una proposta seria professionale.

Si va all’estero e si vede mettere nel secchiello del ghiaccio un vino rosso per portarlo a temperatura; qui chiedi un secchiello del ghiaccio o un rapid-ice perché il vino è a 28°C e subito si grida allo scandalo: “il rosso non si raffredda!!”. Peccato che i nostri nonni già lo facessero, visto che i contadini del Chianti immergevano il fiasco del vino nel pozzo dell’acqua – come il cocomero – per averlo ad una temperatura fresca, accettabile e piacevole da bersi.

Ne abbiamo viste tante: oggi vediamo masse di giovani che fanno corsi del vino, ma raramente vediamo operatori o dipendenti di operatori fare questi corsi. Forse anche le aziende produttrici, i Consorzi, le Regioni o le Province dovrebbero investire di più in questo senso. Si darebbe una migliore immagine ai clienti stranieri che, spesso con una cultura e conoscenza molto più ampia della nostra, affollano i territori enoici dello stivale.

Buona produzione e felice buono consumo.

       

Silvano Formigli

Quello che hai appena letto è un post scritto da un ospite speciale per Winesurf, che non troverai costantemente nel giornale.


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