Non ci voleva molto per capire che nel convegno “Bio e dintorni”, organizzato il 19 aprile a Roma da Fabrizio Russo di Athenaeum e dove intervenivano, oltre al sottoscritto, Luigi Moio, Paolo Zaccaria, Andrea Gabbrielli, Vittorio Fiore e Fabio Turchetti, la macrocategoria dei vini cosiddetti naturali (lasciando da parte i biologici)ne sarebbe uscita con le ossa rotte. Per vari motivi infatti non uno dei partecipanti si poteva dire fosse estimatore di vini biodinamici, naturali, veri, vivi etc .
Facendo anch’io parte di questa categoria il Mister Hyde che è sempre in me aveva cominciato da giorni a stuzzicarmi “Certo sembrerete più un plotone d’esecuzione del vino naturale che un gruppo di esperti che dovrebbe presentarne pregi e difetti” continuando con “Ma non ti senti un po’ pecorone al seguito? Casa avrai da dire tu che gli altri relatori non abbiano già detto e magari detto anche meglio?”
Ho cercato di ribattere ma alla fine ho pensato che sotto sotto qualche ragione questa volta ce l’aveva e quindi, anche per cercare di dare pepe al dibatitto ma soprattutto per la voglia di provare a cercare una quadra tra due mondi (generalizzo in “industriali e naturali”) che quasi sempre non si ascoltano e ben poco si considerano, mi sono messo nei panni del consumatore medio (diciamo medio-alto, forse è più aderente al reale) e ho cercato di capire quali fossero le molle che possono spingerlo a prediligere i vini cosiddetti naturali, anche a prescindere dal valore organolettico di questi vini.
Una prima molla grossa come una casa l’ho trovata nell’elenco dei prodotti e dei procedimenti autorizzati dall’OIV per produrre vino (lo trovate qui ): una marea di sostanze e procedure che fanno sicuramente paura, non solo a chi è poco esperto.
Quando nel mio intervento durante il convegno ho accennato a questo elenco Luigi Moio ha voluto precisare immediatamente (facendo lui parte del comitato scientifico IOIV) che quei prodotti e quelle pratiche sono frutto di un lavoro di anni e alla fine, nonostante siano ammesse, ne viene usato nemmeno il 10%.
Allora, in risposta, mi sono chiesto perché questo non viene fatto sapere al consumatore e a quel punto mi sono reso conto che esiste un grande livello di incomunicabilità non solo tra i produttori “industriali” ed i consumatori, ma tra i due schieramenti in campo. La principale causa di questo fenomeno credo sia una specie di ignoranza; i due contendenti ignorano e vogliono giocoforza ignorare quello che praticamente fanno gli altri, bollandolo da una parte come modi empirici e senza basi scientifiche e dall’altra come il demonio da tenere lontano.
Una strana ripetizione del processo a Galileo dove però le due parti, la chiesa ottusamente arroccata su credenze medievali e la scienza altera, sicura di se stessa e poco incline alla comprensione del sovrannaturale, continuano a confrontarsi senza arrivare ad un punto di contatto.
Ma che punto di contatto può esserci tra un elenco come quello dell’OIV e il manifesto di Vinnatur che testualmente recita “Produrre vino naturale significa agire nel pieno rispetto del territorio, della vite e dei cicli naturali, limitando attraverso la sperimentazione, l’utilizzo di agenti invasivi e tossici di natura chimica e tecnologica in genere, dapprima in vigna e successivamente in cantina”. Oppure tra le regole OIV e il regolamento di Vini Veri che esclude concimi chimici, diserbanti, e sistemici in vigna mentre in cantina non autorizza lieviti selezionati, enzimi, batteri, ogni azione chiarificante o filtrante.
Come possono provare a trovare un punto in comune le “chiese naturali” con il mondo Galileiano della scienza e, last but not least, cosa potrebbero dirsi e imparare l’uno dall’altro?
Forse potrebbero incontrarsi su un tema che a tutti sta a cuore, quello della sostenibilità ambientale, di come riuscire a dare da mangiare (o da bere) a noi e ai nostri figli senza per questo danneggiare o distruggere l’ambiente. Ma occorrerà farlo senza preclusioni di sorta perché se un vino bianco di color aranciato, torbido e con forti note ossidative o magari con forti puzze non può essere spacciato per naturale dall’altra parte bisogna per forza capire che una diminuzione costante dell’uso di sostanze in vigna o in cantina è l’unica strada perseguibile per il futuro. Così le “chiese” potrebbero insegnare ai “galileiani” come si può fare anche senza molte sostante, mentre i secondi potrebbero far comprendere ai primi come la scienza e tecnica non sono sempre da demonizzare ma possono aiutare a fare le cose meglio e addirittura con inquinamenti minori.
La strada è lunga e in salita ma se vogliamo che da una parte “le chiese naturali” escano dal ghetto della assoluta particolarità e singolarità enoica e i “Galileiani” trovino esempi concreti e positivi sulla strada del fare senza inquinare, non esiste altro modo che parlarsi, partendo magari dalla sostenibilità ambientale.
Chiudo con un consiglio e una precisazione.
Forse non sarà un tema puramente enoico ma uno dei punti di partenza per incontrarsi potrebbe essere quello della diminuzione del peso delle bottiglie. Un tema “trasversale” perché colpisce in maniera quasi paritaria i due gruppi e, se si volesse, sarebbe di facile risoluzione (vedi) e porterebbe sia a diminuire l’inquinamento sia a risparmiare non pochi soldi.
Quando parlo di vini naturali non considero il biologico certificato, mondo vasto e variegato dotato però di regole precise che portano indubitabilmente verso una diminuzione dell’uso della chimica. Se la legge europea sul biologico fosse meno permissiva (vedi ) potrebbe essere proprio questo il punto d’incontro.