Pietro Pane e il ristorante che non c’è.7 min read

Ogni giorno alle 3 di pomeriggio quando Pietro Pane, giovane chef del ristorante "Magna Magna", iniziava a cucinare tutto il quartiere diveniva silenzioso e restava  in attesa.

La gente smetteva di lavorare, le casalinghe aprivano la finestra e spengevano la televisione, i ragazzi che studiavano chiudevano i libri, quelli che giocavano a pallone in strada si bloccavano come nel minuto di silenzio all’inizio delle partite. I cani si stoppavano nella posizione di punta al fagiano, gli uccellini smettevano di svolazzare e si appollaiavano sui fili della luce. Persino i tram di passaggio si fermavano perchè sia l’autista che i passeggeri non volevano perdersi il "PGP".

Il PGP era il"Primo Grande Profumo" che regolarmente ogni giorno, tra le 15 e le 15.05 usciva dalla cucina del ristorante. Il PGP non era un semplice profumo di cottura,  ma bensì la quintessenza, la sublimazione, la sua elevazione all’ennesima potenza.

Per esempio, se Pietro (che era considerato da molti il più grande cuoco del mondo) faceva un soffritto, il suo profumo ti arrivava piano piano al naso, ti stuzzicava, ti titillava i sensi, ti conquistava, ti riportava alla mente tutti i soffritti della nonna, ti faceva tornare bambino ed alla fine inevitabilmente (grazie anche alla cipolla) ti faceva piangere di gioia. Addirittura se la giornata era limpida qualcuno riusciva a intravedere una nuvoletta a forma di padella fumante svolazzare per il quartiere. E questo solo con un soffritto!

Ma il PGP finiva inesorabilmente dopo pochi minuti. Perchè alle 15.05  Tano Uncini, il perfido proprietario del locale arrivava al ristorante, sprangava tutte le finestre, serrava ogni apertura e chi voleva godere ancora dei profumi e dei sapori creati da Pietro doveva pagare le esose cifre che Uncini richiedeva per una cena nel suo locale.

E la gente pagava. Il locale, aperto solo la sera, era  costantemente strapieno. La lista di attesa era di almeno 3 anni ed il bagarinaggio per un posto a tavola toccava cifre da capogiro. Nel ristorante si pagava letteralmente anche l’aria. Il tavolo più vicino alla porta della cucina costava il 30% in più. I camerieri, per scordarsi la porta aperta di cucina esigevano cifre con almeno 6 zeri e si narra che il caposala, per far fare scarpetta in una pentola, abbia ottenuto da un noto dentista sei otturazioni, quattro ponti, due apparecchi per i figli, nonchè la fornitura a vita di spazzolini e dentifrici.

Pietro, che era un ragazzo molto semplice e schivo non sopportava questo modo di fare, adatto ad una star di Hollywood ma non ad uno che per mestiere, come diceva lui, usava le mani. Il suo sogno era di aprire una trattoria dove giorno e sera servire piatti semplici  a prezzi popolari, per rendere felici il maggior numero di persone.

Per questo prendeva le ferie solo durante la festa di quartiere e lavorava gratuitamente allo stand gastronomico. Il primo anno la notizia fece appena a tempo a fare il giro della città e con 40 posti a sedere si fecero in 10 giorni 100.000 coperti.

Il secondo anno, viste le pressioni, mettemmo il doppio dei tavoli e servimmo almeno un milione di persone. Il terzo anno la coda per mangiare arrivava  sul raccordo autostradale, proseguiva verso Milano per almeno 25 chilometri e poi tornava indietro terminando proprio davanti alla cassa della festa. Mio zio Mario, credendo di avere solo una persona davanti, si mise in fila e trascorse tutto l’inverno in tangenziale, nutrito dai camionisti di passaggio.

Ma anche chi non mangiava andava via felice con in testa tutti i profumi creati da Pietro, che sin dalla più tenera età aveva dimostrato doti quasi demiurgiche per la cucina. La sua mamma raccontava sempre di quando il bambino aveva 6 mesi e lei aveva sentito venire dalla sua cameretta uno stupendo odore di arrosto girato che si scoprì provenire dai pappagallini di plastica appesi sopra la culla,  che ruotavano sfrigolando sopra a un  Pietro felice e scalciante.

Erano poi diventati famosi i timballi di sabbia ed acqua di mare che il piccolo preparava sulla spiaggia durante le vacanze. Bambini e genitori facevano chilometri a piedi sotto il solleone per poter assaggiare quella squisitezza che niente aveva a che fare con le materie prime iniziali.

Ovviamente noi tutti del quartiere gli volevamo un gran bene: l’avevamo visto crescere e purtroppo cadere nelle grinfie di Tano Uncini, che lo aveva prima coccolato e poi circuito, facendogli firmare un contratto capestro di lunghissima durata. Ma ora mancava poco alla sua scadenza e tutti nel quartiere pregustavano la libertà di Pietro. 

Lui contava i giorni che mancavano a coronare il suo sogno. Aveva da tempo in testa anche il nome: "L’isola che non c’è", un’osteria rifugio per tutti quelli che volevano mangiare bene e spendere poco, un luogo di sosta per il viandante, con piatti semplici ma semplicemente geniali, frutto della tradizione e soprattutto di materie prime stagionali di altissimo livello.

Non come le ricette che Tano Uncini lo costringeva a preparare. Pietro aveva iniziato ad odiare le selle di coniglio, i filetti di quaglia, le tette di allodola, le guance di trota siberiana: brutti riassunti alimentari per colpire prima il portafoglio del palato. Sui letti di rucola ci avrebbe steso le mamme di tutti quelli che li ordinavano ed i vezzeggiativi tipo, "bocconcetti, padellatina, cupolette etc .etc" lo facevano ululare dall’incazzatura.

Per non parlare delle troppe mousse, dei cucchiaini con sopra di tutto-bastava che fosse niente, delle costruzioni barocche che doveva architettare per soddisfare le mire del suo padrone. Ma invece la clientela del "Magna Magna" usciva matta per questi sotterfugi letterari, sbrodolava per giacigli erbacei e andava fuori di testa per qualsiasi mini sezione di animale o vegetale.

Non per niente uno dei piatti più famosi del locale era la "zatterina vegetale con piccolo naufrago teutonico" che non era altro che mezza zucchina ripiena di carne di germano, ma che ogni giorno veniva regolarmente richiesta da almeno metà dei clienti.

Ma presto tutto questo sarebbe finito e Pietro si vedeva già nel suo ristorante: lui in cucina e Wendy, la donna della sua vita, in sala. Lei era venuta da poco ad abitare in zona e si erano incontrati durante la festa del quartiere. Pietro si era subito innamorato, ma il corteggiamento era durato  mesi perchè lei, in un primo tempo, non voleva sentirne parlare. Ma piano piano lui aveva fatto breccia nel suo cuore.

Aveva iniziato col mandarle ogni giorno mazzi di rose rosse di cioccolata. Per il suo compleanno le aveva regalato una Ferrari di marzapane, per Natale una slitta con le renne vive ma fatte di Pan di Spagna. Quando Wendy si era vista arrivare a casa un cuore di pasta frolla alto due metri, che ad ogni battito sfornava un bignè di gusto sempre diverso aveva capito che quello era il suo uomo. Da allora erano divenuti inseparabili e tutto il quartiere aspettava con l’acquolina in bocca il pranzo di nozze.

Ma prima del matrimonio Pietro voleva chiudere col "Magna Magna" ed aprire il suo ristorante. Bisogna dire che Tano Uncini non aveva fatto niente per trattenerlo, solo un discorso: "Caro Peter, tu hai fatto la mia fortuna ed io ti sono in qualche modo debitore. Per questo ti dico di stare molto attento, non credere che aprire un ristorante sia una cosa semplice, specie per chi vuole lavorare come te. Troverai ostacoli dove meno te l’aspetti, perchè purtroppo l’intelligenza è sempre meno di casa in questo mondo affetto da circolari ministeriali insensate e da funzionari colpiti da manie di grandezza. Sappi comunque che qui potrai sempre tornare."

Pietro non capì molto di questo discorso che purtroppo si sarebbe invece rivelato tragicamente vero.

Riuscirà Pietro a coronare i suoi sogni? Lo sapremo alla prossima puntata.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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