Piccolo è bello?4 min read

Una delle tante parole d’ordine del vino di circa trenta anni fa era “Piccolo è bello”, intendendo che i piccoli produttori erano sempre e comunque preferibili alle grandi case.

Invece oggi la stessa frase comincia ad essere usata usata in riferimento alle microscopiche bottigliette  (forse sarebbe meglio dire “flaconi” o “provette” o “contenitori medicali” da 15 a 50 ml) utilizzate per  degustazioni online.  E’ di questi giorni quella organizzata dal Consorzio Valpolicella con 12 microbottigliette da 20 ml e già il Consorzio del Bardolino Chiaretto ha annunciato la spedizione di ben 50 campioni ai giobloinfopi (giornalisti, blogger, influencer, opinion leader) italiani ed esteri  in sostituzione della non organizzabile anteprima a causa del Covid.

“I flaconcetti”,  potrebbe dire il Governatore della Campania De Luca, sembra abbiano indubbi vantaggi pratici: si utilizza molto meno vino, si spende meno di trasporto, non si spreca praticamente nulla e, last but not least si risparmia tantissimo sul cosiddetto “incoming”, perchè con quello che costa invitare un giornalista in zona si confezionano e si spediscono centinaia di bottigliette.

Tanti vantaggi pratici ma…

A questo punto chiedo a tutti di riflettere qualche minuto perché siamo davanti a un bivio importante per i rapporti tra produttori e critica enologica  libera (cioè non pagata, finanziata o foraggiata in vario modo).

Molti di noi fanno questo mestiere  perché, neanche tanto in fondo in fondo, sono amanti della bellezza. Si rimane affascinati da un vigneto, da un territorio, dall’architettura di una cantina, dalla bravura, dall’intelligenza o dalla rustica bonomia di un produttore e tutta questa bellezza la si ritrova poi nella bottiglia che viene stappata, versata, condivisa, discussa e talvolta anche messa da parte come ricordo di una giornata.

Per questa bellezza si affrontano viaggi a proprie spese, si sacrificano lavori magari più remunerativi, mostrando una vena poetica che difficilmente si sposa con concetti brutalmente pratici e commerciali. Inoltre, non so se ricordate che quando si potevano visitare cantine e assaggiare vini in libertà un’altra parola d’ordine era (ed è) “storytelling”, cioè la storia che sta dietro a una bottiglia di vino.

Ho detto bottiglia di vino, non “flaconcetto”: una bottiglia è  l’amata figlia di ogni produttore, il luogo, ben definito da forma del vetro, etichetta, tappo e capsula che racchiude il frutto del suo  lavoro, della storia, della filosofia, dei sacrifici fatti.

Quando ognuno di noi entra in un’enoteca o in un ristorante e il suo occhio casca su una bottiglia, nel nostro cervello si forma una storia fatta di sapori, gusti, ricordi che giustificano la voglia di stapparla e godersela.

Le bottigliette di plastica, che forse in un futuro fatto di “Piccoli Fratelli” sostituiranno le bottiglie a ristorante o in enoteca, non solo non hanno e non rappresentano tutto questo ma  rischiano di trasformare il rapporto di complicità amichevole tra produttori e  giobloinfopi  in un qualcosa di sterile, senza poesia, senza passione.

Che passione può esserci nel ricevere e degustare un campione che non ritroverai mai in commercio, che non potrai mai identificare su uno scaffale, che all’opposto potrebbe andare benissimo per un’analisi di laboratorio fata da tecnici astemi. Niente contro i tecnici (astemi o meno)  ma si sta parlando di un altro lavoro.

Inoltre nella bottiglia trovo varie informazioni e rassicurazioni di legge, ma nel flaconcetto cosa trovo? Una forma asettica, uguale per tutti, un’etichetta volutamente scarna, un liquido  che mi dicono sia lo stesso che troverò nella bottiglia finita, un quantitativo che non permette condivisione, discussione ma solo triste e solitario assaggio.

Scusatemi ma voglio essere ancor più chiaro: il vino è piacere, è un godimento del corpo e dello spirito: già gli assaggi seriali rischiano di minare questo concetto (ma al termine dell’assaggio puoi riassaggiare, capire, meglio, prendere una bottiglia che ti è piaciuta per andare a pranzo) però mettersi ad usare i flaconcetti vuol dire perdere irrimediabilmente ogni poesia. Anzi, si stimola neanche sotto sotto il giornalista ad essere una specie di gallina in batteria, a cui si da il giusto mangime per svolgere il suo lavoro e basta.

Sinceramente non mi sento una gallina ovaiola e quindi ho deciso di non accettare più flaconcetti di qualsiasi tipo!

Tutto questo capendo che siamo in un momento particolare ma speriamo di breve durata e con un grandissimo rispetto per chi ha investito per produrre e promuovere questo tipo di bottigliette di plastica.

Per me, come ho già detto, l’assaggio di un vino è un atto d’amore e vorrei vedere quanti di voi, invitando fuori a cena una bella donna, si accontentano di trovare al tavolo solo un fazzoletto con il suo nome.

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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