Negroamaro: la storia non insegna3 min read

Tre giorni di assaggi presso il rinnovato Hotel Rondò a Bari, con circa 200 campioni, ci hanno permesso anche quest’anno di farci un idea piuttosto chiara della “Puglia in Rosso”. Gli assaggi erano incentrati sui tre vitigni cardine della regione, Primitivo, Negroamaro e Nero di Troia. Eccovi quindi le sensazioni della squadra pugliese di Winesurf, con Paolo Costantini che qui vi parla di Negroamaro. Alla base dell’articolo troverete i link per andare a leggere i risultati delle degustazioni. Nei giornate baresi, tra le varie certezze enoiche ne ho avuta anche una gastronomica: il ristorante Le Giare, diretto dal sempre più genialmente folle Massimo Lanini, è oramai un approdo sicuro per chi vuole mangiare piatti che uniscono creatività a sostanza e bere ottimi vini non solo pugliesi, il tutto con prezzi assolutamente calibrati.

 

 

Perché la produzione di uno dei padri nobili della viticultura meridionale, bandiera dell’enologia pugliese , vaga alla ricerca di un’identità sacrificata sull’altare del dio-mercato, del dio-tecnica o del dio-non so cosa?

La lettura della degustazione è complessa, le interpretazioni dei vini con base Negramaro, siano essi IGT o blasonatissime DOC,  non seguono alcun filo conduttore. La mano del “produttore” conta certamente più del territorio e del vitigno. Le migliori espressioni in questo momento sono per assurdo i vini più tecnici, inappuntabili e perfettini, ma distanti e un po’ freddi; belli ma con poco cuore, poco Salento. 

Che dire poi dei tanti vini smaltati dai legni, così detti moderni, tanto da farci rimpiangere  il vecchio caro vaniglione, a suo tempo giustamente vituperato. Spesso  anche le interpretazioni che si sforzavano di avere un’aderenza al territorio, hanno dettagli poco definiti o peggio che confondono tradizione con imprecisione. 

Eppure la sensazione che la direzione presa fosse quella giusta l’avevamo avuta in primavera al Vinitaly, quando avevamo assaggiato alcune interpretazioni a nostro parere particolarmente riuscite: colori da Negroamaro, ossia piuttosto scarichi e con precoce tendenza all’evoluzione, più vicini a quelli del Sangiovese che a quelli del Primitivo per intenderci. Note semplici ma piacevolissime di frutta rossa per le versioni base, elegantissime di fiori e frutta matura, ma anche, perché no, di spezie e terziari per i vini più importanti, con legni assolutamente dosati. Carattere ed equilibrio anche in bocca, acidità croccanti e tannini percettibili ma ben disposti, contrapposte ad alcol e morbidezza adeguati al corpo, con concentrazioni mai atrofiche; di conseguenza con bevibilità che definire piacevole è riduttivo.

Ci rendiamo conto che percorrere la strada del territorio e della riconoscibilità del vitigno è per il Negramaro estremamente più complesso rispetto ad altri: qui c’è nobiltà e personalità da vendere, con caratteristiche sensoriali che giocano sull’eleganza più che sulla potenza. Più difficile da far accettare ad un mercato poco evoluto o anestetizzato dal gusto legno-fruttone-cabernettizzato che lo standard Parkeriano ha imposto.

E’ vero pure che il consumatore, almeno da questa parte dell’oceano sta cambiando, se non è già cambiato ed incomincia ad essere più esigente e magari insieme ad un vino vuole che gli si venda una storia, un territorio di arte e cultura uniche; o meglio ancora vuole che a raccontarla sia il vino stesso. Non resta che insegnare al Negramaro a leggere la sua storia.

Paolo Costantini

Per dimenticare la grama vita del bancario ho cominciato a dedicarmi al vino quando ancora non faceva figo, attraversando longitudinalmente buona parte del mondo associativo ad esso vocato. Fatale mi è stata la lunga esperienza in Slow food a causa delle cattive amicizie acquisite (Macchi e la banda di winesurf). Trascorro il raro tempo sottratto al lavoro e alla famiglia formando assaggiatori-mostri che metteranno a dura prova la pazienza di sommelier e produttori per futili motivi, nonché collaborando con riviste di settore online dalla dubbia reputazione. 


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