Master of Wine…che dire….provateci!6 min read

L’essere vecchio ha i suoi vantaggi, tra cui poter correggere i giovani quando, magari senza saperlo, scrivono delle cose inesatte dal punto di vista (purtroppo per me) storico.

Mi riferisco ad Alessandro Morichetti che nelle righe introduttive  all’intervista ad uno studente (vedi) per il titolo di Master of Wine, presenta lui ed altri due baldi giovani come i” tre candidati italiani in corsa per il prestigioso titolo di Master of Wine”.  

In realtà i candidati italiani a questo titolo sono, a quanto mi risulta almeno altri quattro: il sottoscritto, Ernesto Gentili, Paolo Valdastri, Giampaolo Giacomelli e sicuramente mi scordo o mi perdo qualcuno.

Inoltre per quanto riguarda il sottoscritto, Ernesto Gentili e Paolo Valdastri, siamo in corsa ( e lo rimarremo perché non credo andremo avanti)  da circa 15 anni.

La soddisfazione di fare le pulci al Morichetti è però solo la scusa per poter, dopo aver letto sia l’intervista sia i commenti, dire la mia su questo importantissimo titolo che ancora non è mai stato conferito ad un italiano.

 
Prima facciamo un po’ di storia: correva l’anno 1995 e nella bellissima Villa di Capezzana venne organizzato il primo pre-corso per master of Wine in Italia. Erano tempi in cui l’istituzione londinese si sforzava di allargarsi all’estero, creando anche appositi corsi fuori dall’Inghilterra per i non di madre lingua inglese. Il pre-corso di Capezzana, durato tre giorni e voluto fortemente dal mio amico MW Nicolas Belfrage, vide presenti e paganti una ventina di persone. L’esame finale per poter accedere al corso venne superato da pochissimi.

Il giovane Roberto Anesi è fortunato perché  il costo per iscriversi al Corso è stato reso più abbordabile dall’euro. Infatti mi ricordo che per il primo anno pagai la bellezza di (stiamo parlando di lire e del 1997) 2650 strerline che, rispetto alle 3000 di cui lui parla, erano sicuramente molte ma molte di più.

Come detto il corso si teneva per i non lingua madre (ma rigorosamente in inglese)  ad Aigues Mortes, nel bellissimo Sud della Francia. Ho ricordi meravigliosi di quella settimana in cui incontrai tantissimi personaggi del mondo del vino internazionale e mi resi conto che esisteva un grande mondo che poteva (e magari doveva) essere conosciuto e approfondito.

Seguirono poi altri incontri a Londra, visite organizzate dai MW (me ne ricordo una a Bordeaux dove dormivo nella foresteria di  Chateau Margaux) e poi….accadde l’irreparabile. Mi resi conto che, se volevo diventare Master of Wine avrei dovuto sacrificare almeno 5-6 anni della mia esistenza e molti ma molti soldi per provare a raggiungere il titolo. Devo dire che il mio tutor di allora, un giovane neozelandese, mi spronava moltissimo a continuare, ma il primo figlio mi fece mettere “temporaneamente” nel cassetto quel sogno.

Ho usato la parola sogno non ha caso. Tutte le volte che andavo in giro per i Master of Wine mi sembrava di vivere in un sogno, perché conoscevi quelle realtà enoiche, quei territori, che avevi sempre sognato di visitare. In più li conoscevi in maniera curata ed approfondita. Tutte le persone che incontravi erano assolutamente competenti  ed al top del settore. Il metodo di degustazione seguito dai MW era ed è molto valido e ti permette di capire (ovviamente se il tuo naso ed il tuo palato ti seguono) perfettamente le caratteristiche di un vino.

Insomma, come “allievo dormiente” se potessi rincomincerei domani a frequentare il secondo anno e poter preparare così la “dissertation” e poi presentarmi all’esame anche se……..

Anche se, vivendo in Italia, oltre alla pura (ed enorme) soddisfazione personale, il titolo di Master of Wine mi aprirebbe ben poche porte. E’ infatti un titolo che funziona alla grande ma nel mondo anglosassone ed in particolare nel settore commerciale. Per diventare MW devi girare il mondo come una trottola, conoscere centinaia di persone “giuste” ed assaggiare di tutto: facendo questo accresci la tua esperienza e le tue conoscenze. Le grandi aziende di vino estere lo sanno e credono giustamente che prendere tra le loro file un MW non possa che giovare agli affari.

Inoltre come entri nel mondo dei MW ti accorgi che tutti, dagli studenti ai responsabili sono estremamente professionali e motivati. Questo ti spinge a dare il meglio di te, anche in situazioni in cui un italiano “salterebbe il giro”.
Vi faccio un esempio: siamo in Borgogna per tre giorni di visite: dopo aver girato per cantine tutto il santo giorno arriviamo a cena in un ristorante che doveva chiamarsi la casa dell’aglio, perché l’odore arrivava fino al marciapiede. Dentro era anche peggio e ovviamente due dei tre piatti (il terzo era un dessert..) aveva forti marche d’aglio. In tavola trovammo una serie di vini già aperti e tutti iniziarono subito ad assaggiare stilando lunghissimi resoconti anche e soprattutto sulle caratteristiche olfattive (la giornata era dedicata a questo). Io li guardavo esterrefatto: eravamo immersi in effluvi di aglio che ti facevano rincretinire e loro, come se fossimo in un’asettica stanza di degustazione, buttavano giù impressioni a raffica.

Questa è forse una lezione che ho imparato dai MW: tutti i vini che assaggi devono essere degustati con lo stesso impegno ed attenzione. Non importa se non sono di grande livello, devi rispettarli e trattarli tutti come un grande vino. In effetti questo insegnamento serve molto perché la stragrande maggioranza dei vini che assaggi nei loro corsi non sono certo i top del mondo, ma vini che rappresentano, tanto per usare un termine a loro caro “l’average” del vino, la media e per media si intende quella che di una zona si trova in commercio all’estero a prezzi interessanti.

Altro esempio: degustazione bendata a tempo di alcuni vini rossi di varie zone del mondo. Capito seduto accanto ad un sudafricano e guarda caso due degli otto rossi erano un Chianti Classico ed un Pinotage.

Io azzecco il pinotage, lui il Chianti classico ma nessuno dei due indovina il vino di casa sua. Perché? perché per entrambi, conoscitori e regolari bevitori di ottimi Chianti Classico e Pinotage, quelli nel bicchiere niente avevano da spartire con il livello qualitativo e le caratteristiche che noi eravamo abituati a trovare nei  nostri vini. Ma quelli erano vini “average” e quindi lui riconobbe il non certo esaltante chianti classico esportato in Sudafrica ed io l’altrettanto non spettacoloso Pinotage che ogni tanto bevevo in Italia.

Come vedete tanti ricordi, tanti momenti bellissimi che invidio ai tre ragazzi che stanno iniziando il loro percorso.

Chiudo commentando l’incriminata frase di un MW riportata da Anesi “gli italiani non hanno senso critico e non affrontano l’argomento direttamente ma ci girano attorno.” La commento utilizzando un’altra frase, quella che mi disse un MW per spiegarmi come fare a riconoscere in una degustazione bendata un vino rosso Italiano “E’ italiano se i tannini del legno sono scissi da quelli del vino e l’alcolicità è marcata”. Come dire… “se è una schifezza è italiano”. In effetti il vero limite dei MW è il dover per forza generalizzare e dovranno farlo sempre più mano a mano che il mondo del vino si allarga.

Comunque consiglio vivamente ai tre giovani di andare avanti: magari non diventeranno MW ma conosceranno tanto del bellissimo mondo del vino. Auguri!

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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0 responses to “Master of Wine…che dire….provateci!6 min read

  1. Come molte istituzioni inglesi i MW hanno una ragion d’essere tutta locale, che noi provinciali del continente fraintendiamo; quello è un paese che non produce vino ma lo compra, per cui ha bisogno di assaggiatori professionali che possano valutate la qualità  commerciale (e sottolineo commerciale) dei vari prodotti offerti sul mercato. àˆ tipo un’albo di periti, un giornalista come te che ci combina?

  2. La sommarieta’, la spocchia e la superbia possono giocare brutti scherzi a chiunque scrive di vino senza un granche’ di competenza, ma soltanto perche’ si e’ fatto un blog e ci campa pure. Tanto di pretoriani e di lustrascarpe ne puo’ trovare quanti ne vuole, il mondo ne e’ pieno. Ce n’era una che in un ammerricano in stile broccolino (te la ricordi, Stefano CC?) sciorinava una marea di titoli di corsi sul vino che neanche Oz Clarke, eppure quella miss di turno non ci capiva una mazza. Oggi basta atteggiarsi a grandi degustatori, inventarsi un modo di scrivere forbito che in diecimila parole non ti dicono poi in sostanza proprio nulla, scatenare polemiche usando nick anonimi per far vedere che c’e’ un gran dibattito e… voila’… fatto l’articolo! Che miseria mentale! Ma con un titolo. Anzi, una serie di titoli, diplomi, master et similia. Che infatti vanno bene solo per gli anglosassoni, che in quanto a titoli sono maestri, ma in quanto a bevute… ne scivolano sotto il tavolo piu’ di quanti ne terrebbe a dormire fino all’alba l’osteria e devono far ricorso ai taxi per tornare in albergo. Non ti serve a nulla quel titolo, Carlo. Continua come hai sempre fatto, non nascondere mai quel che pensi, incazzati con le signorine in nerazzurro che si fanno strizzare il culo in casa perfino dai granata di oggi e bevi, che ti passa la voglia dei pezzi di carta inutili e costosi. Spendili in bottiglie, quei soldi, che e’ meglio.

  3. Grazie Carlo….davvero grazie per avermi fatto fare un salto temporale di una quindicina di anni….momenti che mai dimenticherò: viaggi nelle migliori vigne del mondo, Germania, Francia, Ungheria… con tutte le porte aperte e trattati come se fossimo Re ed invece “solo” studenti de The Institute of Masters of Wine; degustazioni e corsi a Londra con il meglio del meglio, sia di vini che di tecnici. un’esperienza che ha costuito l’ossatura portante della mia formazione enoica. Ma la cosa più importante che si impara, proprio come hai sottolineato tu: ogni vino ha la sua dignità  e un suo “momento giusto”. Auguro davvero alle giovani promesse di vivere quest’esperienza con l’entusiasmo e la consapevolezza di essere in quel momento “in cima al mondo” e tra i migliori conoscitori al mondo di vino. L’importante è che non si illudano di tornare in Italia ed essere riconosciuti per quello che valgono perchè rimarranno decisamente delusi. Questo è uno dei motivi che tiene fuori l’Italia dal salotto buono del mondo del vino: la nostra mancanza di cultura.

  4. Buongiorno, sto in questi giorni iniziando le lezioni per il III livello del WSET a Londra, uno dei passi preliminari per giungere all’MW. Credo che il Direttore centri benissimo che cos’e’ l’MW. Quello che posso anch’io testimoniare e’ che nelle scelte didattiche la fotografia del mercato anglosassone giochi un ruolo enorme, cosi’ come l’attitudine tutta inglese alla creazione di una procedura e di una catalogazione in accordo a una specifica o a un “average”, come giustamente Macchi scrive. La lezione al II livello sul vino italiano, basandosi appunto sull”average”, fu sconfortante. Gli aspetti positivi sono appunto la serieta’ dell’approccio e l’apertura a realta’ lontanissime dalla nostra. Di contro, mediamente i docenti degustano il vino in termini quantitativi (tanto tannino, tanto corpo, tanto aroma, tanto meglio), mentre nozioni quali equilibrio delle parti, stile, territorio, capacita’ di abbinarsi col cibo sembrano sfuggire o essere enormemente secondarie. Non bisogna nemmeno dimenticare che in Inghilterra il vino e’ spesso una bevanda fuori pasto e che le loro cucine (gia’, perche’ etnico e fusion trionfano) sono molto lontane dalla nostra. E’ innegabile pero’ che – grazie alla lingua- sia quella la scuola da cui escono i buyer internazionali, e tanto basti a prenderla sul serio. Aggiungo: e’ molto, molto formativo capire l’immagine che loro hanno del vino italiano e perche’ non lo conoscano e non lo capiscano fino in fondo: la viticultura italiana di qualita’, per caratteristiche nostre culturali e normative, sfugge appunto alla loro necessita’ di catalogazione e di veder le singole zone vinicole come gruppi qualitativamente piuttosto uniformi, dai quali emergono singole eccellenze; e difatti Bordeaux, con tutte le sue sottodenominazioni, e’ per loro il riferimento incontestato. Se i nostri produttori e le istituzioni studiassero perche’ l’idea che il WSET (istituzione senza fini di lucro) ha del nostro vino sia tanto distorta, forse potrebbero muoversi con piu’ determinazione come sistema e rispondere in maniera adeguata in termini di comunicazione.

    Grazie.

  5. Guardi che non esiste una scuola che forma i buyer del mondo, in una vita passata a piazzare bottiglie ovunque ne ho visti fin troppi e sono tutti imparaticci partiti dal marciapiede. Formazione? Nada de nada, magari ci fosse. Gli MW sono una tipica istituzione britannica, molto affascinante, molto snob, molto competente e assolutamente aliena. Funziona solo là¬. Amo quel paese e sono (in parte) cresciuto là¬, ma l’idea che una loro istituzione abbia una reale influenza sul mercato mondiale del vino è decisamente stravagante; se cosଠnon fosse non si spiegherebbe perché da mezzo secolo erodiamo, lentamente ma inesorabilmente, un mercato mondiale che un tempo parlava solo francese e che loro amano alla follia. Vuole una spiegazione (molto superficiale) al perché la gente compra le nostre bottiglie e non le loro? Non è a causa di grandi manovratori o di complotti internazionali, ma solo perché il mondo è pieno di ristoranti italiani e veste, beve e mangia sempre più italiano; trent’anni fa un turista tedesco si riconosceva subito, ora sembra uno di noi. Non ci sbattezziamo per cercare di entrare in un salotto buono che conta sempre di meno, è carino e fa tanto fino ma non serve a un tubo.

  6. Stefano dice delle cose interessanti e molte concrete, però forse non tiene conto a sufficienza dell’insieme del mercato mondiale dove la predominanza della cultura francese del vino – sicuramente minore rispetto al passato- continua ad essere molto forte . I MW sono da sempre ambasciatori e sostenitori di questa cultura e nonostante ci siano alcuni di loro che si considerano esperti di vino italiano, hanno una visione del nostro mondo vinicolo, filtrata da numerosi pregiudizi a cui spesso noi stessi abbiamo contribuito. Resta il fatto che sono stati loro a creare questo club esclusivo di cui, giustamente, hanno le chiavi e ne dispongono come meglio credono. E sono stati e sono bravi. Forse siamo noi ad essere indietro. Mi chiedo, qualcuno ci ha mai impedito di creare un club simile ? eppure di vino ci occupiamo, nel bene o nel male, da qualche millennio….

  7. Ringrazio il Sig. Cinelli Colombini per la sua risposta, che non intendo certo contestare, visto che il mercato del vino lo conosce più di me, che sono solo un amatore. Anzi, concordo con lui che c’è una buona parte di spocchia britannica in quell’istituzione. Io lavoro in tutt’altro campo, e non dico quanto i miei colleghi, che pure hanno tutti studiato a Oxford e Eaton, siano anglocentrici (si può dire?) e nutriti di luoghi comuni su tutto ciò che è estero. Però il Regno Unito parte avvantaggiato: per i contatti storici con l’Oriente e le Americhe e per la lingua; piaccia o non piaccia i critici vinicoli più influenti parlano e scrivono in inglese e spesso ostentano (anche fastidiosamente) la sigletta “MV” dopo il nome. Poi è sicuro che la qualità  italiana col tempo paga; altrettanto vero che i titoli non sono tutto (e, per dire, Veronelli non era certo “MV”, ma quanta cultura e intelligenza!). Tuttavia gli anglosassoni sono maestri nel marketing e conoscere il “nemico” dall’interno penso aiuti a penetrarne i meccanismi e magari a facilitare la nostra lunga rincorsa. Per conto mio, non credo che seguirò mai tutto il percorso, vista la mia idiosincrasia a quell’approccio cosଠstandardizzato; e se lo farò, sarà  dopo essermi sporcato le mani di terra, magari proprio quella benedetta di Montalcino.

  8. “MW” ovviamente; “MV” è uno sciocco refuso…freudianamente la mia testa vorrebbe scrivere Maestro del Vino!

  9. Si che i MW sono bravi, e bravissimi sono i francesi che hanno tutt’ora un’importanza enorme nel mercato mondiale del vino. Non c’é il minimo dubbio e non lo contesto affatto. Ma se loro sono cosଠbravi, ed è oggettivo che lo siano, la conseguenza logica di questo è che noi siamo fenomeni perché nonostante loro abbiamo conquistato e allargato uno spazio enorme su tutti i mercati. Questa è semplice logica aristotelica. Per cui non ci flagelliamo tanto se non abbiamo costituito bei club esclusivi, i nostri metodi “alternativi” evidentemente hanno funzionato lo stesso.

  10. Il nostro vino negli ultimi 20-30 anni ha fatto tantissimo. Basti ricordarsi di come eravamo. Resta il fatto che noi riusciamo a vendere perché mediamente i nostri prezzi del vino sono bassi se confrontati con quelli francesi. In molti casi, la maggior parte, non siamo noi a vendere il nostro vino ma sono gli altri che lo comprano. Nelle fasce alte siamo ancora piuttosto scarsi e abbiamo bisogno di tutti, quindi anche degli MW, per conquistare sempre nuove posizioni rendendo realmente permanenti la presenae. E’ vero che abbiamo costruito un export tutto da soli ma bisogna vedere oltre i fondi per la promozione dell’OCM Vino. Come capita spesso non abbiamo una strategia di lungo termine e di altrettanto lungo respiro. Insomma contare solo sulle proprie forze, non è sufficiente nel mondo e nel mercato globale

  11. Scusa, ma non sono d’accordo. àˆ dagli anni ’70 che sento questi stessi ragionevolissimi discorsi sui limiti che avrebbero presto bloccato il nostro sviluppo, e da quaranta anni constato che cresciamo mentre gli altri (più forniti di noi di ogni cosa) arretrano. I nostri vini costano poco, ma ogni anno in po’ di più e ogni anno crescono più degli altri. Evidentemente i discorsi come i tuoi, che sono ragionevolissimi, non spiegano e dinamiche del mercato; è la storia che lo dice, non io.

  12. Bel duello, il vostro, caro Stefano e caro Andrea. Mi è venuta in mente una famosa frase di Carlo (non il nostro Carl-ou, ma il buon Carl-etto) Marx: “”I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo” (cfr. 11° Tesi su Feuerbach). Non saranno gli anglosassoni a farlo. Non possono scrivere “made in Italy” dove vorrebbero, non possono scrivere “Brunello di Montalcino” dove vorrebbero, non possono bere ma soltanto degustare, vengono qui a cercare sole, mare, pizza, mandolino epperò… con i titoli, ostiassa che titolame titolantur: master di qui, master di là¬, master di sopra, master di sotto, poi li trovi a cercare la birra dopo il vino per farsi passare la ciocca…

  13. Nessun duello, per piacere, ma semplicemente un civile scambio di opinioni tra due persone che si conoscono e si stimano. Quanto alle motivazioni del successo vino italiano in questi 40/50 anni, credo siano molteplici. Di sicuro finché il consumo domestico è stato elevato, le aziende sono stata focalizzate sul mercato nazionale. Man mano che il consumo procapite è diminuito, è cresciuto la percentuale dell’export. Non c’erano altre alternative possibili. Oggi con 34,8 litri procapite è diventata una necessità  vitale. Inoltre l’aumento dei costi in questi anni ha compresso la marginalità  delle aziende che sono state ulteriormente invogliate ad andare sui mercati dove si è sicuri di essere pagati. Credo che la qualità  della nostra produzione media sia molto elevata rispetto a quella francese mentre sui vini top stiamo facendo molto ma c’è ancora tanto da fare. Le grandi aziende hanno avuto il merito di aver aperto molte strade in tanti paesi anche se “piccoli” grandi (Gaja, Pio Cesare, ecc.) hanno avuto un ruolo fondamentale per far conoscere il vino italiano ai più alti livelli. L’Istituto Grandi Marchi ha aperto un tavolo con gli MW: di sicuro non farà  male al vino italiano e anzi forse lo farà  conoscere meglio. Sul fatto poi che il nostro futuro sia in mano a loro (circa 300 MW) naturalmente il problema non si pone. Però resta il fatto che credo sia utile non precludersi né il rapporto con loro né con nessun altro professionale del mondo

  14. Il bello delle opinioni sta nel poterle confrontare, e quando lo si può fare cosଠcivilmente c’é sempre gusto! E su questo ultimo post c’é poco da dire, purtroppo sul top di gamma siamo inferiori ai francesi. Casomai aggiungerei che più che il confronto con l’MW mancà³ il quattrino, perché se fossimo cosଠbravi a vendere come i francesi e spuntassimo anche solo un terzo dei loro prezzi allora……. datemi una leva (economica) e vi ribalterò il mondo!

  15. Stefano, noi abbiamo sempre imparato dagli altri, per esempio ad usare le posate (che non abbiamo inventato noi) ed i calici (che non abbiamo inventato noi), a regolamentare la produzione nazionale di vini (che non abbiamo inventato noi, anche se la prima DOC al mondo sembra quella del Chianti, ma era limitata al Chianti), a fare ottimi metodo classico (che non abbiamo inventato noi) e tante altre belle cose. In questo si puo’ dire che la cultura francese e quella anglosassone, ben integrate insieme con quella italiana, possono fare anche di meglio. Ma non invidio i giovani. Vengo da una generazione che si faceva 105 litri pro-capite nei bicchierozzi a coste all’osteria, al circolo delle bocce. Vedo i wine bar e se posso li evito, troppi nasi all’insù, donne con profumi tanto penetranti che non mi fanno gustare il vino. La flute non la reggo: e’ come una cintura di castita’, preferisco la coppa di cristallo della bisnonna, quella modellata sul seno della Pompadour. Abbiamo da imparare, ma anche da insegnare e se abbiamo da adottare, abbiamo anche da rifiutare. Con lo stesso tono garbato di questa discussione. Ciao!

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