“Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto di intelligenza. Prima di ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza”. Lo diceva Carlo Cattaneo, intellettuale milanese, patriota, filosofo, politologo, linguista e scrittore, nonché esponente del pensiero repubblicano federalista.
Francesco Dispoto, siciliano di stanza a Forlì, era un uomo molto intelligente. E così vent’anni fa prese un vecchio circolo dei repubblicani e ci fece un’osteria. Di quelle vere, autentiche, senza alcuna tentazione ulteriore: un’osteria e basta, curata tuttavia con una rara sensibilità per la nostra storia, con un ossequioso rispetto per l’umanità dei luoghi, con una dedizione totale alla felicità altrui.
Oggi i suoi figli, Filippo e Giammarco, continuano a gestirla con lo stesso bernoccolo per l’ospitalità più genuina, con la stessa tenera sincerità familiare, con una spontaneità che entra nel cuore dalla porta principale, quella dell’amore per le cose che ci appartengono e basta, che ci fanno felici senza una ragione specifica.
La Cantina di Via Firenze si trova a due chilometri dal centro di Forlì, cinque minuti d’auto da Porta Schiavonia, lungo la strada che conduce a Castrocaro, in direzione dell’Appennino. Ma in verità è un posto molto più lontano, forse irreale. Magari è solo un sogno dal nome gucciniano, oppure una vecchia foto in 3D scattata un secolo fa, più o meno.
Fatto sta che entrando, ti senti subito a casa. La casa di tuo nonno, del nonno di tuo nonno e di quell’altro nonno ancora; un luogo atavico, monumento alla nostalgia canaglia, al passato malinconico che ha l’odore del rosso contadino e del braciere spento. Un diario di scritture saporite e di cibi scritti attraverso l’ispirazione di un custode del tempo. In cui tutto è credibile, dove tutto appare connesso e intrecciato, sorrisi, abbracci e maraffone inclusi.
La Cantina di Via Firenze è una tavola ipnotica alimentata da aria antica, senza gas tossici, piena di ossigeno vitale che funge da baluardo contro la civiltà dell’impazienza, che è elogio all’estetica della povertà: del resto senza pena la bellezza non esiste. Un indirizzo ghiotto, monelliano; un piccolo tesoro sottratto alle pagine ingiallite di un vecchio libro di sociologia, un contenitore di rughe e pieghe, con i segni di ieri e le memorie di oggi.
Se siete affamati di amore per la vita vissuta a gomiti chiusi, cercando minuscoli angoli di originalità, allora non vi resta che farci un salto, da quelle parti. A mangiare le polpette al sugo di pomodoro, la frittatina di cipolle e patate, la gota all’aceto e salvia, il peposo stracotto per ore e ore e ore. Ma soprattutto, la trippa in umido, da un’antica, secolare ricetta della famiglia Dispoto.
La migliore trippa in umido di una vita intera, ipotesi celeste del più rustico sapore terreno.
Pancia che si fa poesia, o giù di lì.