Ho trascorso i primi otto anni della mia vita in una fattoria nella Maremma più vera e più profonda, che aveva ancora dei pezzi di palude da bonificare. Questo tanto per inquadrare tempi e disponibilità.
Oramai l’avevo capito, se girellavo intorno alla fattoria prima o poi poteva incontrare Sestilia, la fattoressa, moglie di Paolo il magazziniere, e allora una fetta di pane con la marmellata, di quella buona, ci scappava quasi sempre.
Ma Sestilia ci dava anche qualche biscotto che a casa mia si faceva solo per Pasqua e per Natale. Il pane invece si faceva una volta alla settimana, il venerdì, nel forno che avevamo sotto la loggia di casa.
Assieme al pane certe volte la mia mamma e la mia nonna impastavano anche una specie di schiaccia con l’aggiunta di zucchero e bicarbonato. Il risultato era una schiaccia tutta gialla e un po’ dolce: quelli erano i dolci più ricorrenti durante l’intero anno.
E poi si cominciò con il “pane con …..” dove il pane, è bene ricordarlo, era il pane toscano a lievitazione naturale cotto in un forno riscaldato esclusivamente a legna. Quello che aveva sette sapori, come i giorni che doveva durare. E non è detto che quello dei primi giorni fosse superiore a quello di 4 o 5 giorni.
Nella stagione giusta, quando c’erano i pomodori, c’era forse il pane più buono che si può mangiare, e cioè il pane con il pomodoro strofinato sopra una fetta intera e poi condito con olio e sale. I pomodori ricordo che colti dalla pianta erano allora dolci, e spesso noi ragazzi le prendevamo per mangiarli a morsi li per li, su due piedi. In pratica era una filiera a centimetri zero.
Nella stessa stagione la merenda poteva essere anche un cetriolo e via, cioè lavato, ma non sbucciato, e mangiato così com’era. A dire la verità al cetriolo mio nonno mi aveva insegnato a tagliare la capocchia e poi strofinare questa sul taglio del cetriolo: diceva che così gli andava via l’amaro. A me piaceva molto e poi il cetriolo aveva il vantaggio che poteva essere mangiato camminando o mentre si faceva qualcos’altro, per esempio giocare a passaggi col pallone.
Sempre con il pane, quando non c’erano i pomodori, si poteva avere il pane con l’olio e un poco di sale, ma il più popolare e diffuso era il pane zuppato in una miscela di acqua e un poco di vino e poi ricoperto da una generosa dose di zucchero bianco.
La mia nonna invece mi aveva iniziato ad un’altra pratica: bere un uovo fresco di gallina. Nel sottoscala stazionava qualche gallina, non molte, giusto per avere qualche ovino fresco sempre a disposizione. Si faceva un bucotto ad una estremità e un buco un po’ più piccolo dall’altra e poi, ovo sulle labbra, testa all’indietro e occhi al cielo, e quindi con diversi succhiotti si beveva. Normalmente senza sale. Inizialmente quando andava giù la chiara non era il massimo, ma quando alla fine passava il tuorlo allora si veniva ricompensati da un sapore dolce e confortante.
Non so se lo faceva per incoraggiamento o per farmi levare il sapore di bocca, ma la mia nonna mi dava subito dopo un bicchierino (piccolissimo) di Marsala! Per me ragazzo mi sembrava una gran cosa, e poi non era niente male, sicuramente è stata la prima bevanda alcolica bevuta nella mia vita. Assieme al vino bianco di don Pietro, cioè quello per la santa Messa, e che io nel fare il pieno alle ampolline, assaggiavo tutte le volte. Mi ricordo che sapeva quasi sempre di aceto.
Essendo in campagna la frutta si mangiava via via che maturava prendendola direttamente dagli alberi, ma difficilmente ci veniva data per fare merenda. (segue)