La degustazione per me è immaginare il reale, raccontando con enfasi ciò che per altri appena esiste. È vivere con trasporto ciò che per la maggior parte degli essere umani è solo una bevanda. È animare un oggetto, tradurne la bellezza se c’è, costringendomi al cazzeggio anche quando fuori scoppia l’apocalisse. È silenzio che vale più di mille parole, parole che sono luoghi più dei luoghi stessi, luoghi che appartengono a geografie diverse, autonome. È un grattacapo eccitante, dove ogni approdo nasconde un oltre che non si coglie mai. È la mia evasione, il mio passatempo, il mio gioco d’azzardo. È una terapeutica pausa dalla disattenzione quotidiana, via d’uscita dalla mia solitudine, lingue nuove da intercettare e tradurre. È un antidoto che combatte la pigrizia sensoriale, bene prezioso in un mondo ormai alieno ai sapori e agli odori. È un’attività che mi obbliga a pensare, a riflettere, a coltivare l’umiltà come massima aspirazione. È una forma d’impegno e una festa: mi diverto e mi dispero allo stesso tempo, senza mai conoscere la noia. È bisogno di approfondire non per collezionare informazioni o etichette, né per sfoggiare un delirio enciclopedico, solo per provare a sfiorare un’emozione. È inzupparmi di materia, imbrattarmi di vino la lingua, i denti, le dita, per poi succhiarlo, assaporarlo e godere soprattutto di ciò che rimane, dopo una sana bevuta. È sempre più cultura e sempre meno usura: va bene l’utilità tecnica delle solitarie sedute di degustazione, ma vuoi mettere il confronto, la condivisione, l’amicizia, la tavola, la relazione col mondo, lo scambio equo e solidale, le bottiglie svuotate. È riscoprire nel calice il sapore celeste del sesso più selvaggio nel bosco del San Bartolo, dopo un pranzo da Uliassi; riconoscere gli umori del Garbino prima della burrasca; ritrovare le pietre spaccate della Murgia nella luce pallida di luna piena. È custodire una piccola e preziosa parte del mondo che amo: piccola perché l’oggetto del contendere è solo del liquido raccolto in un bicchiere; preziosa perché la posta in gioco coinvolge uomini, donne, terre, storie, vite, occhi neri, cicatrici sul braccio e sorrisi che diradano la nebbia. È umanità, includere non escludere, comprendere non deridere, conoscere non sapere. È ecologia del pensiero, non burocrazia delle parole. È curiosità e rispetto per ciò che non mi appartiene. È un mezzo per riconoscere le differenze, non le identità, ma le differenze; non ciò che è uguale da secoli, ma ciò che è diverso ora e adesso, creato da uomini e donne in nome di un sogno. È educarsi a vedere attraverso: occorrono occhi allenati e un cuore grande per superare ciò che, a prima vista, sembra immobile, ma è con questi occhi e con questo cuore che la figura dell’assaggiatore può avere un senso. Semmai ne abbia, ciò che ho scritto.