Jacquesson, appunti, suggestioni, riflessioni13 min read

 Cielo.

Infinito, immane, onnipotente. Lo guardo al mattino, nella bambagia del sole, e lo guardo di notte, durante le stelle.

Al cielo mi attacco per succhiare linfa, proprio come un vegetale: succhio dall’alto dei cieli anziché dall’abisso delle terre.

Fisso il cielo per capire se c’è un punto in cui finisce, almeno per un istante: l’inutile ricerca della sua fine è l’incantesimo che placa i miei tormenti.

Ogni luogo ha il suo cielo e ogni cielo le sue albe e i suoi tramonti. Eppoi luci, colori, nuvole, distanze, risonanze, metafore.

Cielo assolato che scortica lo sguardo; cielo cupo che aizza il vento; cielo terso che impollina il cuore; cielo grigio che ispira un sorso di Champagne.

Meraviglia del cielo che ammutolisce il superfluo ed esalta i suoi occhi grandi, come filtrati dalla fiamma tremante di una vecchia lanterna.

Magia del cielo che brucia le parole, facendone cenere che cicatrizza le ferite.

Stupore del cielo che nel breve riflesso dell’ultimo calice, mi regala il più intimo sapore di Lei.

 

 Torno in Champagne per disarmare l’infelicità. Ci torno ogni volta che ho nostalgia del suo cielo solenne e del suo silenzioso spettacolo. Ci torno per andarmene a zonzo da una cantina all’altra, qualcuna celebre, qualcuna molto meno. Ci torno spesso da solo, altrimenti il silenzio non fa più rumore e il cielo si nasconde tra le ombre.

Viaggiando da sud a nord della Champagne sento la quiete di chi ha trovato il suo rifugio, senza altre necessità se non quella di incontrare un po’ di produttori e di bere i loro vini. Bevo, ascolto, chiudo gli occhi e non prendo appunti. Non si prendono appunti, quando si è felici.

A me capita sempre di essere felice, bevendo Jacquesson. È una felicità razionale, motivata da una proposta che da tempo è allergica allo sperpero e ai clamori. Si fa sempre tanto clamore intorno allo Champagne: presentazioni lussuose, racconti sgargianti, commenti altisonanti. Invece Jacquesson predilige lunderstatement di chi guarda la luna, non l’ombelico del proprio ego. Quel che conta, da queste parti, sono perlopiù i fatti: il marchio è celebre per innumerevoli ragioni e il catalogo messo ogni anno a disposizione degli appassionati è impeccabile per personalità e stile.

Io apprezzo la Jacquesson perché ha rotto ogni codice imposto dalla vecchia guardia champenoise, andando in direzione di liquidi sobri, essenziali, puri come acqua di roccia. Cuvée che mettono alla berlina ogni stereotipo tipologico e sparigliano le carte di chi nel grande mazzo della Champagne cerca i soliti punti di riferimento: il dosaggio confortante, le fragranze nocciolate, le loquaci armonie studiate a tavolino.

No, con Jacquesson non funziona così. Qui non si usano paracadute: si tratta di vini senza alcun escamotage.Vini nordici, vivi, trasparenti, raffinati, la cui serietà strappa sorrisi e il cui garbo non conosce mode. Vini artigiani depurati del superfluo; sorvegliati eppure mai calligrafici, capaci di un respiro ulteriore e imprevedibile.

Non è del tutto spiegabile come ogni singolo Champagne di questa gloriosa maison sappia regalare un riflesso di leggiadria perfino al più profondo dei Pinot Noir. Intendiamoci però sul significato di leggiadria; che non è magrezza o mancanza di peso, ma la capacità del liquido di attraversare il palato senza alcuna forzatura, fin quasi a sollevarsi (Sandro Sangiorgi).

Chi non li abbia mai bevuti finora, si aspetti Champagne poco dosati e poco rassicuranti, segnati da una nobile connotazione minerale. Champagne che attaccano femminei e finiscono mascolini; che si aprono e si chiudono e si riaprono come una fisarmonica senza pace. Champagne ariosi e solidi a un tempo, verticali nel sapore e orizzontali nelle attitudini, ideali per i sensi, per l’intelletto e per la tavola.

Fondata nel 1798 da Memmie Jacquesson a Châlons-en-Champagne (capoluogo del dipartimento della Marne), la Maison Jacquesson settant’anni dopo tirava già un milione di bottiglie (oggi meno di trecentomila).

La prima testimonianza del suo florido passato è la medaglia d’oro per “la Beauté et la Richesse de ses Caves”, assegnatale da Napoleone Bonaparte all’inizio del XIX secolo, il più alto riconoscimento dell’epoca per un’impresa commerciale. La seconda, le trentacinque casse di Champagne Jacquesson ritrovate (pare in buone condizioni) una quarantina d’anni fa a San Francisco nella vecchia stiva di una nave magazzino (Il Niantic) affondata dal suo stesso equipaggio intorno alla seconda metà del 1800, accecato dalla Corsa all’oro. La terza, le 168 bottiglie risalenti agli anni Trenta del secolo scorso recuperate di recente nelle acque finlandesi vicino ad Aland Island: 95 erano marchiate Juglar (vecchio marchio della Jacquesson in quegli anni) e quasi tutte furono ben valutate all’assaggio.

La storia ci suggerisce che gran parte del merito di un così solido pedigree si deve a Adolphe Jacquesson, un vero innovatore che guidò la sua intrapresa – dal 1832 al 1875 – verso un invidiabile successo commerciale, contribuendo altresì al boom economico e produttivo che investì l’intera Champagne in quel periodo. Tra i tanti meriti che gli vengono riconosciuti, due hanno avuto esiti pressoché universali: il miglioramento dei metodi di allevamento della vite (insieme al sodale Jules Guyot) e l’invenzione della gabbietta metallica (con capsula) che aggancia il tappo alla bottiglia di spumante (brevettata nel 1844).

Dopo la morte di Adolphe, la famiglia Jacquesson non trovò mai eredi di pari talento, e così le vicende aziendali si svolsero per decenni senza particolare risonanza, perdendo stagione dopo stagione cospicue fette di mercato. La vendità della maison fu dunque inevitabile e nel 1920 passò nelle mani del munifico Léon de Tassigny, broker finanziario di stanza a Reims che trasferì la sede aziendale dalle superbe cantine di Châlon-en-Champagne alla periferia della sua città. La famiglia de Tassigny, di antica origine aristocratica, ne conservò la proprietà per oltre mezzo secolo, durante il quale finanziò un prezioso ampliamento del patrimonio viticolo, senza tuttavia mai  raggiungere i fasti del secolo precedente.

Episodio realmente decisivo per il futuro della Jacquesson fu un altro cambio di proprietà, avvenuto nel 1974. Questa volta il nuovo titolare, Jacques Chiquet, proveniva da una prolifica e tricentenaria dinastia di viticoltori a Dizy, dove a tal proposito trasferì cantine e magazzini che ancora oggi trovano posto in un sobrio edificio nel centro del paese, al civico 68 della Rue du Colonel Fabien.

Dizy non è affatto un piccolo comune, in Champagne. Con i suoi 1700 abitanti è anzi tra i borghi più animati della regione, a fronte di centinaia di villaggi che non superano tre, quattrocento anime. Il suo panorama è quello di tutti i luoghi della Marna viticola, con i boschi in alto (laddove l’altitudine si assesta sopra i 200 metri) e le vigne in basso, poco sopra i 100 metri di quota.

Le case sono spesso di pietra, scarne e di vago ascedente cistercense, abitate il più delle volte da viticoltori (appena meno di duecento in tutto il villaggio) e lavoratori agricoli. Ci sono poi una decina di negozi di cianfrusaglie, quattro bar di modesto conio, una concessionaria, un misero supermercato, la farmacia comunale, un paio di ristoranti, tre alberghi (tra i quali spicca Les Grains d’Argent, consigliatissimo) e la chiesetta di Saint-Timothée, romanica e centralissima.

Gli edifici commerciali non disturbano troppo il paesaggio: qui contano solo le vigne, il cielo e un vento lieve che accarezza l’erba; il resto sono dettagli. Tra i dettagli da aggiungere è che in Champagne l’aria cambia in fretta, nella bella come nella brutta stagione: le nuvole vanno e vengono sfidando il sole, il grigio si alterna all’azzurro, e così pare di vivere in un’imprevedibile samsara metereologica.

Nell’immediata periferia e in alcuni frangenti di collina di Dizy sorgono moderni quartieri residenziali che anticipano l’impostazione urbana della città di Épernay, che da qui dista appena otto minuti d’auto. Eppure non è una periferia fuori misura: la Champagne non è mai volgare e chi la abita non è mai invadente, come se le poche persone che hanno scelto di viverci amassero nascondersi nelle pieghe del paesaggio.

Dizy sta tra Aÿ e Cumières (poco più di tre chilometri tanto dall’uno quanto dall’altro) e come i suoi celebri vicini rappresenta il fulcro della regione viticola denominata Grande Vallée de la Marne, fiore all’occhiello dell’intera Vallée de la Marne. Una manciata di comuni (nove per l’esatezza, meritando la citazione anche quelli di Mareuil-sur-Aÿ  e Hautvillers) che godono di altissima reputazione rispetto agli altri novantuno che la letteratura consegna ai distretti Coteau Sud d’Épernay; Vallée de la Marne Rive Gauche; Vallée de la Marne Rive Droite; Terroir de Condé; Vallée de la Marne Ouest.

Dizy può contare su centottanta ettari vitati classificati Premier Cru (al 95%) secondo l’echelle des cru del 1911: il Pinot Noir si impone tra le varietà coltivate, seguono Meunier e Chardonnay. Delle cinque cantine professionali con sede a Dizy, Jacquesson è l’unica a vantare una celebrità planetaria; di buona reputazione è poi la Gaston Chiquet di Antoine e Nicolas Chiquet (parenti strettissimi degli attuali titolari della Jacquesson), mentre vivono nell’anomimato i marchi Alain Bernard, Paul Barthelot e Raymond Bourdelois.

Un’altra data da ricordare, nelle vicende della Jacquesson, è il 1988, quando Jean-Hervé e Laurent Chiquet – i figli di Jacques – assunsero il comando delle operazioni enologiche e viticole dell’azienda, organizzando nel breve volgere di un decennio i presupposti dell’attuale catalogo. In quegli anni si concretizzò una visione produttiva radicalmente territoriale, partendo dalla salubrità dei suoli e dalla ricerca della maturità ottimale delle uve. È dunque da diverse stagioni che i fratelli Chiquet adottano in  vigna una gestione dei trattamenti in sintonia con gli indirizzi biologici, dall’inerbimento dei terreni alla messa al bando del diserbo chimico.

Il sogno artigiano dei fratelli Chiquet ha poi reso necessario il controllo diretto di tutte le operazioni viticole ed enologiche, senza mai abdicare al ruolo di vignaioli in senso stretto. Ecco dunque che tre quarti dell’intera superficie vitata è di proprietà e il saldo necessario per completare la produzione non arriva mai da mosti o da vini intercettati sul mercato, ma da uve acquistate in una decina di ettari distribuiti nei paraggi di Dizy (e pressate direttamente à la maison). Contestualmente, in cantina si lavora come in campagna: niente consulenti, niente pratiche offensive, profondo rispetto per la materia prima.

Da tali presupposti originano oggi una mezza dozzina di Champagne per la tavola e per il futuro, essenziali nella forma, vispi nel sapore e in sostanziale rottura rispetto al vecchio stile Jacquesson. Il cambio di rotta definitivo avvenne tra il 2000 (con l’elaborazione della Cuvée 728, la prima della celebre Serie 700), il 2002 (ultima annata di produzione del Millesimato) e i primi anni del nostro decennio, con l’uscita di quattro cuvée di singoli Cru ormai noti agli appassionati: Corne Bautray e Terres Rouges a Dizy, Vauzelle Terme ad Aÿ e Champ Caïn ad Avize. È invece del 2014 l’esordio dei dégorgement tardif della Serie 700 (si cominciò con la Cuvée 733 e via via con le altre), che prevede sempre una sosta supplementare sur lattes di circa 50 mesi rispetto alle sboccature regolari (per un totale di almeno 2700 giorni sur lies). Si tratta, è bene ricordarlo, dell’unico caso di sboccatura tardiva effettuata su flaconi di Champagne non millesimati.

Del resto, Jacquesson è oggi soprattutto nota agli amatori per il valore della Serie 700. Certo, ogni singola referenza firmata Jacquesson  merita la nostra attenzione,  ma è con questo formidabile Champagne che ha conquistato il cuore di molti appassionati.

Non è fuori luogo affermare che dal 2004 in poi (l’anno di uscita della Cuvée 728, alimentata in modo copioso dalla vendemmia 2000) la storia dello Champagne cambia: c’è un prima e c’è un dopo. In tal senso è un vino epocale.

In quasi tutte le grandi Maison di Champagne, per l’elaborazione delle cuvée “di base” le migliori energie sono spese in cantina, dove si lavora per ottenere una cuvée ideale e replicabile. Ideale in funzione del mercato che andrà ad assorbirla; replicabile perché dovrà essere anno dopo anno fedele a sé stessa. Evidentemente per ottenere Champagne di quel tipo (i più diffusi in assoluto), non si dovranno adottare solo operazioni enologiche e tecnologiche pertinenti (filtrazioni, chiarifiche, dosaggi), ma anche alcune pratiche secolari come l’utilizzo dei vini di riserva, indispensabili a livellare gli eventuali scostamenti dell’ultima vendemmia rispetto allo Champagne progettato.

Al contrario, la Jacquesson per il suo Champagne non millesimato rinuncia a tutto questo, affidandosi alla più rischiosa aleatorietà dell’annata. Ogni numero di serie sul mercato corrisponde a uno Champagne distinto e diverso, in virtù delle caratteristiche del millemisimo di base che lo ha nutrito, lasciando alle riserve un ruolo di secondo piano (circa il 25% del totale, attingendo solo ad assemblaggi della serie 700).

Dopo la raccolta parcellare dei grappoli di Pinot Noir, Chardonnay e Meunier selezionati in climat di eccellente livello della Grande Vallée de la Marne e della Côte des Blancs (anche laddove si tratti di uve conferite), la pigiatura avviene in due presse orizzontale tradizionali a base quadrata, da cui si prelieva solo mosto fiore fermentato e maturato in botti di legno, perlopiù di grandi dimensioni (foudres). Lo zuccheraggio dei mosti è ormai bandito da anni e i tiraggi si effettuano a ridosso della nuova vendemmia, imbottigliando così basi omogenee, mature e di buona struttura.

Struttura resa naturalmente stabile attraverso lo svolgimento (più o meno totale) della fermentazione malolattica, così da evitare sovraccarichi di solforosa e drastiche filtrazioni. Struttura che consente anche di allungare anno dopo anno gli affinamenti sui lieviti, diminuendo sensibilmente sia i dosaggi zuccherini (oggi davvero marginali, con meno di 2 grammi/litro) che le dosi di solforosa (meno di 40 milligrammi/litro).

Se è vero che le cose stanno così, allora la serie 700 rappresenta il vertice assoluto tra i sans année delle grandi Maison di Champagne. Va detto, per amore della verità, che l’aggettivo grande, nel caso di Jacquesson, ha una connotazione esclusivamente qualitativa, perché le tirature aziendali stanno sotto le trecentomila unità, una goccia nell’oceano dei commercianti champenois. In verità anche il sostantivo commerciante qui è usato in modo improprio, in quanto Jean Harvé e Laurent Chiquet vanno considerati vignaioli fino al midollo: ce lo dice la loro evoluzione di imprenditori, la loro sensibilità di interpreti e i vini che da tempo concepiscono. Ho scritto vini non a caso: qui lo Champagne non è un vino speciale, non è una bevanda da occasione, non è solo uno spumante di pregio. Qui lo Champagne è soprattutto un vino buono, buonissimo; un vino sorvegliato con estrema sensibilità ed elasticità, evitando deviazioni pericolose e lasciando spazio all’eco del territorio.

Parlare con Jean Harvé e Laurent Chiquet è un formidabile antidoto alla noia. Una visita presso la sede di Dizy non è consigliata ma necessaria:  per capire dove sta andando a parare la Champagne; quali sono le pulsioni più alte della denominazione. Per rendersi conto, invero,  di quale enorme regalo hanno fatto alla regione in termini di immagine e agli appassionati in virtù della loro sensazionale gamma di referenze.

Secondo Jean Harve, ci sono cinque fattori nevralgici che condizionano l’esito di un vino: terroir, viticoltura, viticoltura, viticoltura e vinificazione. Un’iperbole, certo, ma che spiega un modo di pensare.

Se oggi esiste l’ossimoro di maison récoltant o négociant artisan, lo si deve alla Jacquesson degli ultimi vent’anni, che ha rivoluzionato l’ortodossia produttiva cara a molti degli storici marchi champenois, concependo lo Champagne in una dimensione realmente contemporanea.

Il talento dei fratelli Chiquet è enorme, ma è soprattutto il coraggio delle loro scelte ad avermi sedotto. Saper abbandonare i porti sicuri, catturando un vento nuovo nelle nostre vele è quanto di più pericoloso, imprevedibile e allo stesso tempo eccitante possa capitarci nella vita.

La loro storia ci dimostra che vale la pena provarci.

Gli Champagne Jacquesson sono importati in Italia da Pellegrini S.p.A. Cisano Bergamasco

Tel: 035.78101/   Fax: 035.787278

info@pellegrinispa.net

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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