J’accuse! Basta con i grossi vini, viva i grandi vini!5 min read

Sono circa 40 anni che bevo/degusto/assaggio/parlo/scrivo di vino e credo sia giunto il momento per cercare di capire e magari provare a cambiare alcune regole, figlie di un contesto storico ormai sorpassato, ma considerate inamovibili  come i Dieci Comandamenti . La prima (e l’unica di cui parlerò oggi) che mi viene in mente è: “Un grande vino è solo quello strutturato che può invecchiare per molti, molti anni.”

Questa legge scritta o non scritta ha creato più danni della grandine, del gelo, dell’oidio e della peronospora messe assieme. Prima di dire perché è fondamentalmente  sbagliata o almeno  per buona parte non vera, cerchiamo di capire come è nata.

Nei primi anni Ottanta del secolo scorso, a parte Luigi Veronelli, eravamo tutti come quelli della canzone di Gino Paoli, “Quattro amici al bar”. Non esisteva una critica enologica seria ma tanti giovani (ahimé… lo ero anch’io) che stavano approcciandosi ad un mondo enologico sconosciuto e totalmente diverso dall’attuale. Un mondo che aveva in Italia poche certezze e all’estero (leggi Francia) un punto di riferimento, un faro, una certezza, solo in Bordeaux. La Borgogna, mi spiace dirlo, aveva grossi problemi  non solo di commercializzazione e 3-4 nomi non bastavano per coprire pecche di vini con evidenti problemi enologici.

In Italia però non arrivavano 10000 etichette bordolesi, ma solo poche, ben selezionate e con qualche anno sulle spalle: quindi era ovvio per chi volesse bere bene (e avesse due lire)  puntare ai Gran Cru Classè non certo giovanissimi. Bevendo e poi provando (quasi a botta sicura) a parlare invece vini del mercato italiano era quasi obbligatorio rivolgersi a vini nati da pochissimi vitigni: in primo luogo nebbiolo, poi qualche cabernet sauvignon magari sposato al sangiovese (leggi supertuscan) e poco di più. I cosiddetti vini base erano, o snobbisticamente poco presi in considerazione, o con grossi problemi di pulizia. Non per niente abbiamo dovuto per più di venti anni (e qualcuno continua anche adesso) confrontarci con i “Vini di San Giuseppe” cioè talmente marcati da legno che sembravano fatti da un falegname.

Questo perché? Perché per alcuni produttori il modo più semplice per (in un mondo enologico ancora grezzo) coprire i difetti era spalmarci sopra una grossa dose di legno; per altri perché dovevano comunque differenziarsi dal vecchio modo di produrre vino per “sfruttare l’onda”.  La critica enologica nascente purtroppo, abituata a vini non certo perfetti, ha benedetto questa via.

In altre parole: un mondo enologico italiano agli albori della qualità attuale ha visto come  modo imperante per innalzarsi  cercare di produrre GROSSI vini che in teoria potevano invecchiare molto, marchiandoli a fuoco con un uso del legno che “certificava” la loro futura longevità e bevibilità.

Per anni produzione e critica italiana  hanno sdoganato il concetto “Grande vino= vino di notevole estratto, da uve con importante contenuto tannico, magari poco godibile nei primi anni (ma allora ci piacevano anche così…) con importanti note di legno sia al naso che in bocca.

Questo modo di “fare” e di “aspettarsi” un vino, riproposto per anni, nonostante tanta critica e tantissimi produttori abbiano intrapreso una strada completamente diversa, è rimasto sottotraccia a caratterizzare il DNA italico di un grande vino. In realtà è vero che un grande vino da invecchiamento deve poter invecchiare per anni, ma sono altrettanto vere due cose.

  1. Esistono tanti, troppi, grossi vini spacciati per grandi vini: prodotti derivanti da sommatorie di estratti, tannini, alcol, residuo fisso e acidità, spacciati per vini “da comprendere” adesso e da aspettare ad libitum in futuro.
  2. Esistono sempre più, grazie ad agronomia ed enologia più intelligenti, elastiche, mature e informate, vitigni e vini che possono essere definiti GRANDI senza per questo dover fare a braccio di ferro con i tannini per dimostrarlo. Sono vitigni e vini sia a bacca bianca che a bacca rossa, dotati di grande eleganza, di profumi non standardizzati, di possibilità di invecchiamento forse non secolari ma certamente adatte alla possibilità di tenerli in cantina per anni e di vederli cambiare migliorando.

Aggiungo che la strada tracciata negli anni ottanta ha portato come conseguenza, a considerare  oggi la stragrande maggioranza dei vini bianchi italiani (proprio perché “figli di un dio minore” senza tannini e senza legno)  come prodotti da bere nel primo anno di vita o addirittura entro l’estate successiva alla produzione. Invece bisogna dirlo chiaro e forte che oramai da anni il 90% dei banchi italiani NON dovrebbe essere bevuto prima almeno di 12-14 mesi dalla produzione (e molti non prima dei 2-3 anni), siano essi vini del sud, centro o nord Italia.

Sui rossi il problema è forse più grave perché più strisciante: pochi hanno il coraggio di dire pubblicamente che il vitigno/vino X, non potendo invecchiare 30 anni (ma non esistono le prove di questo!), non sia un grande vino, ma c’è quasi un silenzioso e insulso “gentlemen agreement” che stabilisce quali siamo i vini più cazzuti, tosti, importanti e quindi di alto livello e quelli magari piacevolissimi, buoni, godibili, ma senza quelle presunte palle che riguardano solo alcuni vini/vitigni e che li rendono “ipso facto” grandi. Un po’ come se Einstein fosse stato valutato come sollevatore di pesi.

Questa mentalità, mentre il mondo del vino italiano sta crescendo, rischia di non rendere il giusto merito a tante zone enologiche e soprattutto di spacciare per vero sempre e comunque un concetto in molti casi falso e fuorviante: quello che il vino  si misura in peso specifico ed in concentrazione tannica.

Per carità, ci sono grandissimi vini con naturali e  notevoli tannicità e con possibilità di evoluzione  incredibili, ma accanto a questi e SULLO STESSO PIANO andrebbero messi tanti vini/vitigni, bianchi e rossi, magari snobbati nel recente passato.

Volete dei nomi? Oggi non li faccio perché sicuramente mi scorderei qualcuno, però vi invito ad essere curiosi e ad aprire bottiglie di qualche o diversi anni (di bianchi e di rossi)  a 360° ed a stupirvi, in silenzio, della loro atipica (per gli anni ottanta) grandezza.

Il grande futuro del vino italiano passa anche e soprattutto dal riconoscimento definitivo  di questo enorme passo avanti.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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