Il vino canaglia.5 min read

Alla scoperta del vino e delle bellezze siriane.
Forse non è stato un metodo soft e politicamente corretto per rompere il ghiaccio, ma nel mio primo colloquio con un produttore di vino siriano ho esordito con: “Lo sa che il Presidente degli Stati Uniti definisce la Siria uno ‘Stato Canaglia’ e quindi quello che mi ha versato nel bicchiere potrebbe essere chiamato ‘vino canaglia’?”

Questi modi da galateo per elefanti hanno avuto stranamente successo. Sgranando gli occhi per la sorpresa, messo in campo un tirato sorriso di circostanza e fatte debite spallucce, mi ha solo chiesto: “Le dispiacerebbe passare dall’inglese al francese, che è poi la vera lingua del vino?”.

In francese abbiamo parlato di tante cose, e ho imparato che anche in Siria esiste una realtà viticola: piccola e non molto avanti dal punto di vista tecnico, ma sicuramente radicata storicamente e accettata anche dalla popolazione fedele all’Islam.
Non per niente (anche se non viene sbandierato per ovvi motivi) il maggior produttore siriano è lo stesso Stato, con due grosse aziende. L’alcolico più consumato è comunque l’arack, versione siriana del nostro Mistrà Varnelli.

Un liquore a base d’anice che, dopo alcune iniziali titubanze, ho capito adattarsi benissimo alla loro cucina, dove le mezzé, cioè una serie di coloratissimi e saporiti antipasti a base di salse più o meno piccanti, verdura e carne di vacca o di cavallo, dominano incontrastate.

Purtroppo non si adattava al mio fisico e quindi, dopo una o due notti da tregenda, laddove il vino mancava ho pasteggiato ad acqua. Acqua minerale, naturalmente, che si trova praticamente da tutte le parti, soprattutto dove la natura si rifiuta di farla scendere direttamente dal cielo. Palmyra, meraviglioso sito archeologico dove è facile scordarsi sia di bere che di mangiare tanto si è rapiti dalla bellezza, è uno di questi luoghi. La città della regina Zenobia, che ha avuto il suo massimo fulgore intorno al secondo secolo dopo Cristo, ti lascia letteralmente a bocca aperta. Solo a Efeso ho potuto ammirare palazzi, colonnati, teatri, templi così ben conservati. La differenza è che qui eravamo praticamente da soli, e che il sito archeologico è sicuramente più grande e coinvolgente di quello turco. La bellezza del posto, associata a un silenzio semisacrale, mi ha fatto nascere un ringraziamento quasi blasfemo: “Grazie Bush!”, ho pensato vergognandomi. “Grazie di aver scacciato tutto il turismo occidentale dalla Siria!”

Ma Palmyra non è il solo posto che vale la pena di vedere. Potrei parlare per ore del Crack de Chevalier, fortezza gigantesca dalle infinite e mastodontiche sale, dove ti meravigli di non sentire il metallico scalpiccio dei crociati. Oppure della vibrante Aleppo o della pirotecnica Damasco, entrambe innervate da persone cordiali e disponibili, senza però quella vena appiccicosa che solo il turismo di massa porta con sé (ancora grazie, George!).

Ma in mezzo a bellezze che potevano anche farmi scordare del vino, il mio obiettivo rimaneva sempre quello: trovarlo, assaggiarlo, parlare con chi lo fa, cercare di capirne qualcosa. D’altra parte, la media pro-capite di alcolici è circa di cinque litri e quindi da qualche parte questi benedetti alcolici dovevano pure starci. Come accennato, li trovavo quasi regolarmente nei ristoranti, anche se nella stragrande maggioranza dei locali gli alcolici sono banditi. A proposito di ristoranti: la carta dei vini del ristorante di un grande albergo damasceno mi ha riservato la scoperta di un “Chinati Classico”, che per un chiantigiano è il massimo…….

Ma io non volevo chianti o chinati, bensì vini siriani, e grazie a un continuo lavoro di cesello, mi stavo avvicinando. Alcune vigne a tendone (che ho poi scoperto essere di uva da tavola), sempre piccole e circondate da mura, mi invogliavano nella ricerca. Uno scarno vigneto ad alberello, incontrato per caso, mi ha fatto capire di essere vicino al traguardo. Alla fine il mio peregrinare mi ha portato in un’enoteca normalissima, con tanto di superalcolici occidentali, scaffalature con vino e bevande a basso tenore alcolico. Mi guardavo intorno e non credevo di essere in un paese islamico.

Qui finalmente ho conosciuto un produttore e ho saputo qualcosa di più sul vino siriano. Lo si produce sia nel Sud che nel Nord, ma sempre in zone piuttosto alte. Ho assaggiato un bianco prodotto a 1150 metri, che non aveva niente da invidiare a un buon Grechetto umbro o a un bianco Trebbiano-Malvasia fatto in Toscana. Tutto questo, non avendo sistemi di controllo della temperatura, se non empirici e artigianali. Sui rossi troviamo tannicità difficilmente domabili, ma anche una certa sana rusticità che fa sperare per il futuro. Un futuro con tante cose da fare, sia in vigna che in cantina. Non esiste, infatti, uno studio ampelografico sulle uve siriane, né se ne sente la mancanza. L’uva da vino è chiamata semplicemente “uva”, sia essa bianca o rossa, e anche le visite di eminenti enologi, come il professor Glory, non sono riuscite a sensibilizzare più di tanto. Comunque il vino si produce, si imbottiglia e si vende anche se con etichette di annate precedenti (“Ne abbiamo stampate troppe e non possiamo gettarle”……) o con bottiglie diverse l’una dall’altra. Questo modo molto naif di commercializzare ha però radici solide. C’è gente che produce vino da 125 anni e che anche in questi difficili momenti vende, con tanto di rappresentanti, quasi 60.000 bottiglie in tutta la Siria.

Forse sarebbe il caso che un appassionato importatore prendesse la palla al balzo e si presentasse in qualche cantina siriana. Sarà accolto benissimo e forse potrà riportare in Italia vini particolari a prezzi assolutamente concorrenziali. Del resto, invece di tanti vinelli canaglia italiani o esteri – fatti senza andare tanto per il sottile e dove quello che dice l’etichetta è spesso una pia illusione -, provare il vero “Vino Canaglia” – fatto però come Dio comanda –  potrebbe essere un occasione da non perdere.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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