E’ il padre putativo di Rockea,cioè colui che gli ha messo nome. Poteva fermarsi lì e rimanere tranquillo a distanza di sicurezza dal nostro branco di mattocchi. Invece Giancarlo Rolandi non ha resistito al nostro maelstrom enoico ed ecco così la prima parte del suo articolo di esordio. Parla di viaggi, di storia, di vino, di Lazio e non solo. Benvenuto Giancarlo!
Viaggiare con lentezza serve, come al servo Martino – oggi si direbbe collaboratore – che, proprio nel Lazio, diede origine al popolo dei recensori vinicoli e ai sistemi di punteggi e simboli, con quell’est est est! graffito sulla porta della locanda col vino migliore di un paese che non poteva avere nome più opportuno: Montefiascone.
Comunque questa storia remota e un poco logorata dallo sfruttamento ad uso turista, ci racconta che già nel 1100 chi cercava il buon vino doveva, appunto, andarselo a cercare.
Viaggiava all’alba del novecento Hans Barth, per compilare il suo Osteria, guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri, un grand tour enologico alla ricerca dell’unica vestigia classica che interessava il giornalista tedesco: l’eredità di Bacco.
Sotto una voce spesso tendente al lirismo ebbro, s’indovina l’istinto del cercatore appassionato, che dedica ampio spazio a Roma e ai Castelli Romani, spendendosi in una ricerca sitibonda e bibace – per usare parole in linea con lo stile di Barth – che non risparmia critiche:
Entrando nel Lazio, è proprio Osteria di Barth, il libro che Paolo Monelli mette accanto alla guida del Touring, mentre scende con calma l’Italia degli anni trenta per scrivere Il ghiottone errante, libro miliare nella letteratura del cibo e del vino italiano
Fa eco, dall’altro lato del lago di Castelgandolfo, l’impressione di un viaggiatore per obbligo, che a Roma ferma un migrare inquieto; una penna eccezionale e uno sguardo attento ai fatti della tavola e della cantina, Carlo Emilio Gadda
Viaggiava molto Luigi Veronelli, in una ricerca del buon vino inesausta; una ricerca che confluisce ne I vini d’Italia del 1961, prima guida moderna alle vigne e alle cantine d’Italia.
Quando nei primi anni settanta Mario Soldati si era messo in cammino per scrivere la seconda parte del suo viaggio nel vino italiano, aveva in tasca un foglietto piegato in quattro che gli era stato dato proprio Veronelli, sopra c’è scritto.
Il principe Ludovisi nel 1946 piantava cabernet e merlot, semillon e malvasia sull’Appia, appena fuori Roma. Negli anni mise a punto il Fiorano, un vino memorabile da vigne inerbite che non vedevano l’ombra di un prodotto chimico. A Paliano, il principe Ruffo invece inseguiva un’idea di cui il vino era solo una parte, oggi dispersa; il Torre Ercolana di Luigi Colacicchi combinava merlot, cabernet e syrah, per dare corpo ad un grande rosso laziale.
La vocazione all’uso dei vitigni francesi aveva un precedente nel Sammichele, primo grande rosso laziale da esportazione; questo vino nasceva dal lavoro di Pasquale Visocchi, uomo rilevante nella storia dell’agronomia e dell’enologia nazionali. Negli anni sessanta dell’ottocento, Visocchi aveva avuto occasione di viaggiare in Francia – il viaggio, sempre il viaggio – e si era innamorato del vino di Borgogna e di Bordeaux, mettendosi ad importare ad Atina, in Ciociaria, barbatelle di cabernet, syrah, semillon, pinot nero e diversi altri vitigni transalpini, dando inizio a una produzione di grande qualità, dai profondi influssi nel panorama nazionale.
Quando il fertilizzante imperava (pochi agricoltori potevano permettersi di resistere e mantenere la tradizione del vino benfatto con i vari trebbiano e malvasia e bellone, cacchione, ottonese, procanico, capolongo, cesanese, grechetto, nero buono, aleatico, pampanaro, roscetto, passerina) la prassi del vino di qualità e la ricerca dell’eccellenza erano portate avanti da pochi evidenti eccentrici innamorati della vite, che si permettevano la continuità con un sistema naturale di produzione del vino, un sistema che nel dopoguerra venne spazzato via.
E oggi?
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