Il Canavese diviso in tre5 min read

L’amaricante del fine sorso dell’Erbaluce di Caluso DOCG detto a voce alta durante la degustazione guidata dal presidente AIS Piemonte Mauro Carosso, ha scatenato alcuni secondi di disorientamento, finché non ho specificato che quell’amaricante, a mio parere, spezza la noia del sorso. Una peculiarità di tutti i giovani Erbaluce, che nel maggior parte dei casi vira al pompelmo e, nelle espressioni più eleganti, verso la mandorla amara.

Pergola di erbaluce

Di Erbaluce si parla da qualche anno nelle nicchie di degustatori curiosi, e gli assaggi alla cieca sono stati un’ottima occasione per memorizzare un profilo organolettico tratteggiato da fiori e frutta a pasta bianca e quella chiusura per nulla monotona, a cui si aggiungono sapidità e freschezza che fanno presagire un potenziale d’invecchiamento.

Se sul Bianco fermo della zona qualche aspettativa c’era già prima dell’assaggio, per Carema e Canavese DOC è stato un approccio scevro di pregiudizi, che però necessita di consapevolezza, dato che a differenza della DOCG bianca, la bassa temperatura nel calice non può limare il carattere a tratti ruvido. Per lo più 100% Nebbiolo, le 2 DOC narrano rossi dal graffiante tannino tipico del vitigno simbolo del Piemonte. All’assaggio si sono rivelati tutti vini ben fatti, nonostante numerose piccole aziende di pochi ettari, a volte passate da nonni contadini a nipoti oggi imprenditori in settori ben lontani dalla terra. A volte i vignaioli non dispongono di mezzi e tecnologie per sperimentare rapidamente tecniche in grado di smussare i caratteri veraci (vasi vinari eterogenei o grandi masse da instradare su fermentazioni diverse), che a dire il vero, sono coerenti con un territorio disegnato da colline moreniche, muretti a secco, allevamento a pergola e 1.000 ml d’acqua annui su terreni sabbiosi.

Carema

Nel bicchiere i nasi si sono posati senza esitazione e lì sono rimasti su tutti i vini, bianchi e rossi, con soddisfazione. In bocca qualche istante di indugio è stato necessario, per codificare se il sorso dritto con finale netto fosse una sfumatura del vignaiolo o lo specchio dell’uva che lo aveva scolpito. Un “dritto” simbolo della terra da cui nascono.

Un territorio dentro i calici

Ammirando la Serra (la collina morenica dell’anfiteatro del canavese, la più importante della sua tipologia in Europa), la valle che sbocca in Valle d’Aosta, il lago Viverone con i suoi “terreni ballerini” (di nome e di fatto per la singolare composizione geologica), le pergole che vestono i terrazzamenti che sbucano dai colli, i balmetti (cantine scavate nella roccia di cui parleremo tra poco), comprendi che aspettarsi dei vini sottili, verticali, fluidi, suona distopico. Da un panorama deciso, con pennellate di originalità geologica, ti aspetti invece vini genuini, con personalità, che vale la pena scoprire per capire se fanno per noi e per le tavole dei nostri ospiti.

Un balmetto adibito a cantina

I balmetti

Prima di proseguire sul lato vino, un breve accenno sui curiosi balmetti di Borgofranco d’Ivrea è d’obbligo. I balmetti sono cavità naturali sfruttate nel tempo come cantine per la conservazione di vino, salumi e formaggi. Ricavate tra grandi blocchi di frana allo sbocco della Valle della Dora Baltea, dove inizia l’anfiteatro morenico di Ivrea, formano un raggruppamento di oltre 200 cantine, spesso dotate all’esterno di un piano superiore per momenti conviviali. Quelli che a Borgofranco d’Ivrea sono chiamati balmetti, altrove sono conosciuti come Grotti o Crotti, un fenomeno geologico sfruttato dall’uomo in alcune aree delle Alpi Piemontesi e Lombardo-Ticinesi. La loro particolarità è che al loro interno si crea una circolazione d’aria fredda a temperatura costante, tra gli 8° e i 15°C, che esce alla base affiorante dell’accumulo chiamata poeticamente da qualcuno “il respiro della montagna”. Il processo è consentito da vuoti comunicanti presenti nel volume di un accumulo. Le correnti che lo attraversano, sono dette “ore” e sono sfruttate come refrigeranti naturali in locali in muratura, i balmetti appunto.  

Le tre denominazioni nei numeri del Consorzio

Dopo aver delineato una rapida immagine di questa zona vitivinicola piemontese, i numeri sulle tre denominazioni raggruppate sotto il Consorzio, sono utili a solleticare ulteriormente la curiosità su questi vini della tradizione. Il Consorzio di tutela, guidato da Bartolomeo Merlo, conta 38 soci e 1.300.259 bottiglie totali l’anno (dati 2023). Gli ettari vitati totali sono 473, di cui 260 di Erbaluce DOCG, 20 di Carema DOC (si era scesi a nemmeno 5 pochi anni fa) e 192 di Canavese DOC. Nel dettaglio: quelle di Erbaluce sono 965.000 bottiglie suddivise nelle 3 tipologie:

  • 839.679 bottiglie di bianco fermo
  • 99.673 bottiglie di Metodo Classico
  • 24.940 bottiglie di Passito

Per il Carema si contano invece 68.000 bottiglie, testimoniando una nicchia produttiva, mentre risalgono i numeri del Canavese con circa 267.000.

Ciò che accomuna il bianco fermo e i due rossi a base Nebbiolo è il potenziale d’invecchiamento: siamo risaliti fino a un Erbaluce di Caluso Invecchiato del 2013 firmato Fontecuore, che non aveva ceduto al tempo la sapidità che scolpisce tutti i calici del Bianco fermo. Con i rossi siamo risaliti invece fino al 2018, Ma prove della longevità del Carema le ha presentate più volte il nostro direttore.

Le tre denominazioni incarnano l’identità territoriale in toto e la costanza qualitativa della ristretta cerchia di appassionati produttori chiude il cerchio per decidere di tornare e assaggiare ancora, o convincere l’enoteca di zona ad allargare i suoi orizzonti piemontesi.

Barbara Amoroso Donatti

Appassionatissima di vino e soprattutto “liquidi con qualche grado in più”. Punto di riferimento del giornale per tutto quanto riguarda il mondo dei superalcolici.


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