Il bene infinito di uno zio5 min read

Mio zio Erpidio Pastorelli era il fratello maggiore di mia mamma Clary: lui era il maschio più grande dei sei fratelli (1910), lei la sorella più giovane (1924). Abitava con la numerosa famiglia al podere del Calvello, sulla collinetta all’inizio della Strada dello Sbirro che porta dall’Aurelia a Roselle attraverso Vallerotana.

 

Quand’ero un bimbo mamma mi portava spesso da lui e allora era sempre festa grande per me. Ci trovavo un mondo tutto nuovo e più ricco rispetto alla vita nella Fattoria degli Acquisti.

 

C’erano le mucche nella stalla che servivano per il lavori del podere, compresa l’aratura. Le due della coppia da lavoro si chiamavano una  Lambretta e una Vespina. Cioè con i nomi degli scooter dell’epoca. Lui le guidava con una cantilena che era per metà comando e per metà preghiera: “Vai avanti Vespina, stai al solco Lambretta.”

 

All’epoca della vendemmia si andava tutti nella vigna con le forbici per cogliere l’uva. Sul carro tirato dai buoi c’erano i bigonsi (i contenitori n.d.r.) di legno dove veniva messa l’uva vendemmiata. Quando mi stancavo di cogliere l’uva stavo sul carro e col batacchio pestavo le zocche (i grappoli n.d.r.) dell’uva.

Un piacere per gli occhi e per il naso inebriato dal profumo che saliva da quelle bollicine dell’uva ammostata.  

 

Già appena nato, piccolo e sfollato con la famiglia in un rifugio in Vallerotana, potei godere del beneficio di una mucca che mio zio Erpidio aveva messo fuori del rifugio per cui io e mia cugina Leonilda, sua figlia, avevamo il latte sull’uscio di casa.

 

Ogni mio desiderio veniva esaudito in casa sua. Anche se non richiesto. Come quando accortosi che amavo ripulire l’osso attorno del prosciutto che stava per finire, dette disposizione in casa che anche in mia assenza, il prosciutto arrivato allo stinco finale non fosse finito, ma lasciato da parte per me.  

 

Io amavo fin da piccolo la musica e per farmi felice ogni volta che andavo da lui gli chiedevo se poteva suonarmi un po’ la fisarmonica. Già, perché appunto era anche un valente fisarmonicista!

 

Se era a lavoro nella stalla mi diceva: “Aspetta che finisco e poi vengo a suonare”. “Vai a prenderla”, mi diceva appena rientrato, e io via in camera di mia nonna Giselda, dove sapevo che l’avrei trovata anche al buio, dentro un armadio, andando a tasto. Quando cambiò la vecchia fisarmonica tutta di legno con i bottoncini tondi in madreperla del tipo cromatico, cioè non a tasti, come quelli del pianoforte, ma messi in maniera sfalsata, con una  nuova a quarantotto bassi, tutta bianca e nera, mi regalò la vecchia senza che nemmno gliela avessi chiesta.

 

E io continuavo a chiedermi come facesse questo zio a volermi così bene.

 

Anche sua moglie, la zia Rosina, mi voleva molto bene. Lei veniva da Pistoia e la sua famiglia lavorava, come tanti in quella zona, nei vivai con piante e fiori. Forse era per questo che c’aveva sempre le rose ed i fiori più belli di tutta Vallerotana.

Mia mamma mi diceva che se lei piantava uno stecco per terra gli attaccava anche quello. E poi dicevano che c’aveva un trucco per far attaccare le talee, ma non lo aveva mai voluto rivelare a nessuno in famiglia. 

 

Anche io amavo e amo coltivare fiori. Allora una volta gli dissi: “Zia, se veramente mi vuoi tanto bene mi devi dire come si fa a far attaccare le talee!”, e lei, sottovoce, come quando si vuol confidare qualcosa di nascosto, mi disse: “Va bene, solo perché sei te ti dirò questo grande segreto”. E allora mi disse dove e come tagliare la rosa con taglio netto, ed altre piccole attenzioni.

 

E poi mi disse: “Guarda che quello che ti ho detto non serve a niente senza il mio vero segreto che ora ti dico: dopo aver piantato la talea per terra te devi  recitare un’Ave Maria o un Pater nostro doppio!”.

Io allora, un po’ sorpreso dalla natura del segreto, ma non troppo, conoscendo la  zia, gli chiesi com’era fatta questa preghiera. E  lei mi spiegò che non ne dovevo dire due preghiere, una dietro l’altra, ma proprio doppio così: “Padre – Padre, – nostro – nostro, che sei – che sei, nei cieli – nei cieli …” e così via fino in fondo.

 

Una volta cresciuto andai ad abitare a Braccagni con tutta la famiglia. Allora vedevo mio zio più di rado. Ma riuscì a stupirmi e a farmi felice anche ormai grandicello.

 

Lui aveva comprato un Giubileo, motocicletta della Gilera, bianco e rosso, 98 cc di cilindrata, 4 tempi, bello da morire. Ogni volta che veniva a Braccagni per farsi i capelli o altre cose, veniva da me e mi diceva: “Guarda io c’ho un po’ da fare qui a Braccagni, ti lascio la moto così se vuoi puoi andarci un poco a giro!”

 

Si può essere amati più di così?

 

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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