Guida vini: Il buon bicchiere mezzo pieno del territorio di Orvieto3 min read

Mentre assaggiavamo i bianchi  DOC e IGT del territorio di Orvieto pensavo  a tre cose,  o molto positive o molto negative.

Quella molto negativa è  che una DOC che vede “fuggire” il 70% del suo prodotto per essere imbottigliato fuori zona riesce difficilmente a controllare non solo la qualità finale e generale del prodotto ma anche la certezza che quel vino “parli la stessa lingua” dell’ Orvieto DOC imbottigliato in zona. Questo in una denominazione con circa 2200 ettari (duecento di grechetto e trebbiano piantati di recente) e quasi 13 milioni di bottiglie vuol dire in soldoni che quelle di  Orvieto “veramente DOC “ sono molto meno di 4 milioni.

La prima molto positiva è che gli Orvieto DOC che abbiamo degustato noi (come scrivemmo lo scorso anno una vera e propria “punta dell’Iceberg”) sono praticamente tutti di alto livello, anche in una vendemmia difficilissima come la 2017.

La seconda nota molto positiva è che non solo l’Orvieto DOC ha dato buoni risultati ma oramai ci è chiaro che questo territorio è adattissimo anche per vini da uve diverse  da quelle classiche e autoctone.

Insomma, bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, o meglio ottimismo batte pessimismo 2 a 1: infatti  aldilà di una dato che difficilmente può essere modificato nel breve bisogna ammettere che l’Orvieto, da quando lo assaggiamo, ha sempre fatto passi in avanti, e anche i bianchi IGT prodotti in zona stanno progredendo.

Il bello è che i miglioramenti interessano sia l’Orvieto  che l’Orvieto Superiore,  con una serie di 2017 dove la sapidità non fa passare in secondo piano un corpo più che adeguato, specie nei vini base, in cui magari il trebbiano ha una presenza importante. Nasi abbastanza pronti, alcuni tra i superiore dotati di bella complessità mai oscurata dal legno completano il quadro di un  vino che consigliamo senza se e senza ma, naturalmente acquistando quelli da noi consigliati.

Ma il bello è che, anche diversi vini IGT , nati soprattutto da grechetto, dimostrano che questo vitigno è veramente adatto a produzioni che, se non  fossero legate (dal punto di vista della comunicazione)  al “ventre molle” del territorio orvietano, potrebbero essere vendute a prezzi nettamente superiori, perché dal punto di vista qualitativo possono  competere  in complessità e longevità con tanti banchi italiani.

E non ci fermiamo qui, perché uve non certo autoctone, come il sauvignon, hanno mostrato interpretazioni assolutamente non legate al cliché del vitigno, ma ad una eleganza che rifugge le strade facili , ricercando aromaticità e corpo più “territoriali”. Non tutto è oro quel che luccica, ma sicuramente da queste parti con il sauvignon (in annate adatta) si possono fare ottimi vini.

E quasi tutti gli anni si possono fare ottimi vini passiti, mentre quelli “benedetti” da muffa nobile hanno bisogno della vendemmia giusta: resta comunque il fatto che alcuni vini dolci locali son oramai, anno dopo anno, una garanzia.

In conclusione siamo molto soddisfatti di come questo territorio si sta sviluppando, anche se la speranza di un possibile “ritorno all’ovile” di tanto imbottigliato fuori zona è, appunto, solo una speranza. A proposito di speranza: speriamo siate così furbi da lasciare, almeno i Superiore, un anno o due in cantina prima di gustarli.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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