Tenuta di Fiorano: uno stile se dio vuole!5 min read

Ci sono produttori che hanno le mattonelle nel vialetto per arrivare dalla casa alla cantina e produttori che hanno chilometri di Appia Antica nei propri terreni. C’è chi ti mostra la sfilza di barrique corredate da luci e effetti scenografici e chi ti fa solo affacciare in cantina ma ti chiede, per favore, di non fare foto. C’è chi usa bottiglie pesantissime per i propri vini (e magari si dichiara paladino dell’ambiente) e chi sceglie da sempre la più leggera bordolese in commercio. Molti moltiplicano a dismisura la gamma aziendale, aggiungendo e togliendo etichette anno dopo anno e c’è chi per affiancare ai due soli vini aziendali altre due etichette ci pensa dieci anni.

Parafrasando Lucio Battisti potremmo dire “Tu chiamalo, se vuoi, stile”. Questo è lo stile della Tenuta di Fiorano, impersonificato da Alessandro Boncompagni Ludovisi.

In realtà Alessandro si chiamerebbe Alessandrojacopo e sarebbe pure Principe, ma queste sono cose che possono avere valore per un appassionato di araldica o di Novella 2000, non certo per Alessandro.

Erano anni che volevo andare a Fiorano, luogo mitizzato addirittura da Giulio Gambelli, che lo visitò una/due volte accompagnando Tancredi Biondi Santi quando quest’ultimo, nella prima vita di Fiorano, era amico del Principe Alberico Boncompagni Ludovisi nonché enologo nella cantina nata verso la metà del secolo scorso.

La seconda vita di Fiorano, che si trova alle porte di Roma nel Parco dell’Appia Antica, inizia nel 1999 e riparte praticamente da zero, perché Alberico, forse fedele al significato del suo nome, che nei miti di origine norrena vuol dire “Re degli Elfi”,  pensò bene ad un certo punto di spiantare tutti i vigneti e così creare il mito, come la bellezza elfica, dei vini di Fiorano.

Confrontarsi con un mito non è una cosa semplice ma in poco più di venti anni Alessandro è riuscito a ricreare non solo un bel pezzo di quel gran passato, ma anche a fare qualcosa di più e di diverso. Questo grazie sia agli iniziali consigli di Alberico che all’attenzione e all’intelligente dedizione all’azienda.

I consigli di Alberico portarono a piantare cabernet sauvignon e merlot tra i rossi e viognier e grechetto per i bianchi. Ho usato il plurale perché da circa dieci anni oltre al Fiorano Rosso e Fiorano Bianco Alessandro produce il Fioranello Bianco e il Fioranello Rosso, veri e propri “Second Vin” aziendali.

Il tutto con 12 ettari di vigneto. Guardando la giacitura dei vigneti mi sono ricordato quello che pensai, da giovanissimo, guardando per la prima volta i vigneti del Medoc e cioè come facessero a fare grandi vini praticamente in pianura e a pochi metri di altezza sul mare. Allora, come adesso, bastò assaggiare qualcosa per capire. In effetti questi 12 ettari non crescono sui ciottoli di Margaux (forse su ciottoli di antichi insediamenti romani, e scusate se è poco…) ma su un terreno vulcanico che ha poco da invidiare al bordolese e che riesce a conferire caratteristiche importanti e particolari alle uve. Il resto viene fatto con vinificazioni tradizionali e invecchiamenti in botti da 10 ettolitri.

Ancor prima di assaggiare i vini il fascino strano di quest’azienda continuava a fare breccia, forse per la paciosa, pianeggiante ma importante estensione, per il panorama che i colli lontani proponevano, per l’aria del mare che timidamente faceva capolino,  per gli aerei di Ciampino che, pur decollando e atterrando a poche centinaia di metri sembravano “girare largo” per rispettare la quiete del luogo: insomma una delle caratteristiche di Fiorano è che non ti senti all’interno di un’azienda vinicola ma in un pezzetto di storia che produce vino.

E vediamolo questo vino, anzi questi quattro vini: due “storici” (Fiorano Rosso e Bianco) e due inseriti da Alessandro da una decina d’anni.

Li abbiamo degustati in un luogo particolare, una sala talmente grande che (ormai ero partito con i romani e  la storia) mi sembrava il Praetorium, cioè la tenda del comandante che si trovava al centro dell’accampamento romano, all’incrocio tra le due vie principali , il Decumanus Maximus e il Cardo Maximus.

Ma l’accampamento romano aveva quattro porte e quindi i vini non potevano che essere altrettanti.

Il Fiorano Rosso 2013 (65% cabernet sauvignon, 35% merlot, 30 mesi in botti da 10 hl)  mostra tutta la dinamica ritrosia dell’annata: cassis, ciliegia, legno perfettamente dosato e bocca fresca dominata da tannini dolci e sapidi. Un uvaggio bordolese di austera finezza che in tempi di cambiamenti climatici a Bordeaux si sognano.

Il Fiorano Bianco 2017 (grechetto 50% viognier 50% 12 mesi in botti di slavonia) stenta un po’ ad aprirsi poi propone note floreali e agrumate, ben affiancate da sentori balsamici. In bocca è grasso ma verticalmente sapido, molto lungo: certo non ricorda minimamente la calda vendemmia da cui è nato.

Il Fioranello Rosso 2017 (cabernet sauvignon 100%, un anno in tonneau da 500 litri) mostra invece di più l’annata calda con un frutto rosso maturo iniziale che si trasforma lentamente in mora, cassis e lievi sentori vegetali, per poi riproporsi, in modo cangiante, sulla marmellata di prugne e su un mio ricordo d’infanzia, il “fruttino Zuegg”, una composta quasi solida che i bambini del mio periodo adoravano. Bocca integra, profonda con bei tannini ma mai pungenti.

Cosa mi sono scordato? Il Fioranello Bianco 2019! Come potrei scordarmi questo vino: viognier e grechetto in pari quote, solo acciaio in affinamento. Per me rappresenta la quintessenza di quello che chiedo a un bianco giovane: agrumi, pietra focaia, goduriosa e lievissima nota sulfurea, annunci di sambuco e ginestra. Bocca sapidissima ma grassa, lunghissima e pulita, chiude con fresca rotondità. Un vino che, non lo nego, mi sono portato a casa sia per godermelo da giovane sia per vedere come invecchia perché, sono convinto, tra 7-8 anni sarà ancora meglio.

Cosa importantissima! Tutti e quattro i vini hanno una caratteristica simile, un’austera eleganza che va aldilà delle annate e che in qualche modo incarna lo spirito della cantina. Cantina che, mi piace sottolinearlo, usa bordolesi leggerissime da sempre (e nonostante varie pressioni su Alessandro perchè adottasse bottiglie “adeguate”) perché a un ottimo vino, come a una bella donna, serve molto poco per lasciarti a bocca aperta.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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