Filiera corta? Chilometri zero? Ma ci faccia il piacere!3 min read

Filiera corta, tipicità, chilometri zero: sono queste le parole d’ordine con cui sindaci e assessori al commercio e all’agricoltura strizzano l’occhio ai territori (elettorali?) di riferimento.
Si direbbe ormai un’ubriacatura generale, i mercatini impazzano, gli agricoltori beneficiano di questa nuova moda, guai a non conoscere un pastore e relativo caseificio, un frantoio, un ortolano.
Ma se si scava solo un po’, ci accorgiamo che tutto non è come sembra, a partire dagli stessi agricoltori.
Per esempio, su questo argomento il presidente della CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) Giuseppe Politi non ha dubbi: si tratta di un concetto che altro non è che “uno spot pubblicitario, uno slogan di un ambientalismo retrogrado e di vecchio stampo per cercare unicamente consensi”. In realtà secondo Politi in questo modo si farebbe sprofondare il made in Italy e, da un punto di vista tecnico, non sarebbe possibile utilizzare tutti gli alimenti prodotti dal proprio territorio.
Come sempre, ognuno porta l’acqua al suo mulino.
Di cosa si tratta in realtà? E dov’è il confine tra valorizzazione del territorio e protezionismo?

Partiamo dalla terminologia.

La filiera è l’insieme delle operazioni compiute dai vari operatori per generare un prodotto partendo dalle materie prime.

Prendiamo per esempio la frutta: serve un vivaista che faccia gli innesti, un agricoltore che coltivi gli alberi, qualcuno che raccolga i frutti, un luogo dove si fa la cernita e il confezionamento, un grossista che gestisca il mercato all’ingrosso, i commercianti che la portano nei negozi, nelle mense e nei ristoranti, qualcuno che la prepari (lavaggio, pelatura) e finalmente si arriva al consumatore finale.
E c’è un criterio per capire se una filiera è lunga o corta? Si direbbe di no, è un concetto che esula da parametri oggettivi di tipo sia qualitativo che quantitativo. Qualcuno ha detto che entriamo nell’ambito etico e ne dobbiamo capire la filosofia per apprezzarne pregi e difetti. Quindi – cito un tecnologo alimentare, Piero Ferrari – l’etica della filiera corta e del chilometro zero trova la sua validità “in un sistema non globalizzato in cui sono presenti piccole realtà produttive che non hanno bisogno di alti profitti, in cui la qualità viene percepita sensorialmente ad ogni transazione, in cui è la disponibilità sul mercato che determina la richiesta, in cui il consumatore apprezza ciò che reperisce sul mercato ed è disponibile a pagarne il prezzo, in cui è indispensabile strutturare mercati locali di piazza e di rione, gruppi di acquisto, mense in economia diretta”.
Bene, ho accorciato la filiera, quindi posso dire che acquisto prodotti a chilometri zero. Ma quanti chilometri devo fare in realtà? Chi l’ha stabilito? Chi mi garantisce la qualità? Chi mi garantisce che il prezzo è equo?
Sembra che presto la materia verrà regolata da una legge apposita (anche se si direbbe che il governo di questi tempi abbia altro a cui pensare…). Intanto proviamo a dire che per convenzione i chilometri zero possano ragionevolmente essere cento, poco più di una gita fuori porta. Allora, se con epicentro Bologna facciamo un cerchio sulla carta geografica, abbiamo un diametro che va da Verona a Poggibonsi, ovvero contesti (quindi prodotti) assolutamente diversi.
Infine last but not least, l’enfasi sulla filiera corta ci porta a considerare un altro aspetto di non poco conto: la sacrosanta libertà di conoscere, gustare prodotti di altre terre, solidarizzare con i produttori, vino compreso.

L’argomento merita ovviamente ulteriori approfondimenti. Il terroir è senz’altro il punto di partenza, la stella polare di chi si occupa di enogastronomia: Ma anche qui un po’ di sana laicità non guasta.

Fabrizio Calastri

Nomen omen: mi occupo di vino per rispetto delle tradizioni di famiglia. La calastra è infatti la trave di sostegno per la fila delle botti o anche il tavolone che si mette sopra la vinaccia nel torchio o nella pressa e su cui preme la vite. E per mantener fede al nome che si sono guadagnato i miei antenati, nei miei oltre sessant’anni di vita più di quaranta (salvo qualche intervallo per far respirare il fegato) li ho passati prestando particolare attenzione al mondo del vino e dell’enogastronomia, anche se dal punto di vista professionale mi occupo di tutt’altro. Dopo qualche sodalizio enoico post-adolescenziale, nel 1988 ho dato vita alla Condotta Arcigola Slow Food di Volterra della quale sono stato il fiduciario per circa vent’anni. L’approdo a winesurf è stato assolutamente indolore.


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