Falsi nel vino: per salvarsi è arrivata la “cavalleria digitale”. Basterà?7 min read

Il 25 aprile 2007, la Acker Merral & Condit,  il più antico wine merchant d’America mise in vendita, per conto di Rudy Kurniawan, 21 bottiglie di un vino che non poteva esistere, 21  rarissime bottiglie  del Domaine Laurent Ponsot.

Un avvocato newyorkese, Douglas Barzelay, fu il primo a intuire che il lotto in vendita era implausibile e probabilmente contraffatto, in quanto composto di  bottiglie di Clos St. Denis che risalivano al 1945. Peccato che Ponsot avesse iniziato a produrlo nel 1982, quasi quarant’anni dopo.

Barzelay chiamò immediatamente il titolare del famoso Domaine, che  confermò i suoi sospetti. Ponsot si recò immediatamente a New York per veder chiaro nella questione  e il lotto fu ritirato dalla vendita, anche perché Kurniawan non fu in grado di dare informazioni attendibili su come fosse venuto in possesso di quelle bottiglie “impossibili”.

Questo incidente (con la testimonianza che lo stesso Ponsot fece al suo processo)  fu una delle cause del crollo del truffatore cino-indonesiano (vedi primo articolo della serie) , e fornisce un valido esempio degli enormi  rischi connessi ai cosiddetti “unicorns”, ossia i vini unici e perciò “impossibili”: la loro capacità di attrazione nei confronti degli acquirenti ricchi ma ingenui è al di là di ogni possibile valutazione, e consente ai truffatori di spuntare prezzi straordinari.

Per difendersi da truffe simili la conoscenza è la maggior arma  di difesa posseduta dai collezionisti. In alcuni casi, per scoprire una probabile contraffazione, bastano conoscenze relativamente semplici, come nel caso di  una bottiglia di  Brunello di Montalcino del 1955  che riportasse sull’etichetta la dizione DOCG : sarebbe manifestamente un falso, dal momento che l’istituzione della DOCG è avvenuta 25 anni dopo.

In altri casi,  occorrono conoscenze più fini e specifiche: ad esempio la vendita di un grande numero di bottiglie di  Chablis Grand Cru del 1957 sarebbe quanto meno sospetta,  dato che quell’anno-disastroso per la regione- ne fu dichiarato soltanto un  ettolitro,  e oltre sessant’anni dopo di bottiglie in circolazione non potrebbero essercene in giro molte.

Ma, per quanto ampia  sia la conoscenza di cui disponiamo, essa  non  può rappresentare una protezione assoluta. Infatti solo pochissimi  produttori, specie se  è trascorso molto tempo e ci sono stati diversi passaggi di proprietà, possono disporre di registrazioni  assolutamente precise sul numero di bottiglie prodotte e in quali formati molti decenni prima. Per questo Margaret Downey, fondatrice di  sostiene “La provenienza è tutto. E’ importante quanto l’autenticità. Non si può avere certezza dell’una senza l’altra. L’una senza l’altra non significa nulla”

Alla fine degli anni ’90 David Peppercorn e Serena Sutcliffe misero in dubbio l’autenticità delle imperiali di Château Pétrus di annate comprese tra il 1921 e il 1934 servite ai wine tastings organizzati da Hardy Rodenstock nel 1989 e 1990. Christian Moueix, allora a capo dell’azienda di Pomerol, confermò di non disporre di documenti che provassero la produzione di imperiali a Pétrus in quegli anni, ma non fu possibile avere una prova decisiva della falsificazione. Poi i 100/100 assegnati da Parker a un Pétrus 1921 venduto da  Rodenstock acquietarono  temporaneamente  la questione.

Ma dove non può arrivare la conoscenza dei venditori e degli acquirenti più esperti è possibile fare ricorso   ad un  nuovo strumento tecnologico, che sembra molto efficace,  quello cosiddetto delle Block Chain, la cui applicazione più conosciuta è quella  impiegata  per i pagamenti in   cripto-valute,  le famose bitcoin.

La block chain è un registro digitale, le cui voci sono raggruppate in blocchi concatenati cronologicamente, la cui integrità è garantita dall’impiego di primitive crittografiche. E’ una sorta di database distribuito, gestito da una rete di nodi, ognuno dei quali  possiede una copia privata di esso.  La coerenza tra le copie, è assicurata da un protocollo condiviso, e pertanto non è necessario che i nodi conoscano l’identità di tutti gli attori coinvolti ed è  indipendente dalla fiducia che eventualmente abbiano gli uni verso gli altri . Una volta che sia stata autorizzata l’aggiunta di un nuovo blocco , viene aggiornata la copia privata di ciascun nodo, assicurando così l’assenza di una manipolazione successiva. Infatti , per quanto la dimensione di questa catena di blocchi sia destinata a crescere illimitatamente, una volta scritto, il suo contenuto non è più modificabile.

Gli  ambiti nei quali questo sistema di archivi distribuiti (Distributed Ledger) possono essere impiegati sono moltissimi. Google è un  esempio conosciuto da tutti. Ma nel vino? La prima e certo la più nota è il Chai Vault.

creato dalla suddetta Maureen Downey, notissima esperta internazionale  di contraffazione di vini pregiati (celebre la sua refutation in occasione del processo a Rudy Kurniawan) consulente dell’FBI e fondatrice del portale WineFraud.com, nel quale è possibile trovare una grande quantità di risorse utili per combattere le frodi. Insomma la Downey è un vero Van Helsing in perenne caccia dei  “vampiri” del vino.

Cominciò a lavorarci una decina di anni fa, quando incontrò Leanne Kemp, a sua volta fondatrice di Everledger, un’azienda di Londra che operava nel campo della difesa dalle frodi per banche.

Kemp aveva utilizzato la blockchain nel campo dell’industria dei diamanti. Tanto bastò alla Downey per intuire  che quello che era stato fatto per i diamanti poteva essere fatto anche per i vini pregiati, e che sarebbe quindi stato possibile disporre di  uno strumento che non poteva essere né copiato né manipolato. Realizzò allora Chai Vault , il primo registro blockchain  avente lo scopo di validare l’autenticità delle bottiglie di vino, nato dall’incontro  della piattaforma blockchain di Kemp con il  metodo di autenticazione, denominato Chai, di Downey.

In Chai Vault sono  riportate  diverse decine di  informazioni, che includono immagini di numeri di serie, qualsiasi tipo di scritta sul vetro e, se in uso, indicatori antifrode. Ciascuna di esse è registrata in una voce criptata da collegare alla blockchain di Chai Vault. Si tratta di una procedura assolutamente non intrusiva, che non comporta alcuna aggiunta che possa modificare il design e il packaging di una bottiglia, né influenza la scelta dei materiali da impiegare. “

Il Domaine de La Romanée-Conti– afferma la Downey- impiega la stessa stampante da oltre 100 anni. Nessuno deve dirle che ha bisogno di cambiare il fornitore di capsule o modificare la sua etichetta”.

Di più: diversamente da qualsiasi codice QR o label Prooftag , che possono comunque essere aggirati dai truffatori, Chai Vault è inattaccabile, e, siccome la chiave di tutto è la provenienza, può aggiungere anche le informazioni ad essa relative, che diventano visibili online sul ledger che ne attesta così l’autenticità e la provenienza.

Su questa sorta di  libro mastro digitale sono inoltre riportate informazioni comprendenti i nomi degli autenticatori, data, posizione, condizioni delle bottiglie al momento dell’ispezione, se si tratta di una bottiglia unica o parte di una cassa, e tutte le informazioni che possano essere dimostrate circa la loro provenienza e i passaggi di proprietà effettuati.

Ai collezionisti privati viene fornito  un elenco personalizzato  di registri di inventario digitali certificati, denominato Cantina digitale (Digital Cellar). Le casse o le bottiglie che fanno parte dello stesso proprietario  sono contrassegnate  e   i proprietari o i direttori delle cantine possono aggiungere altre  informazioni sulla collocazione e  tutto quanto  sia necessario per la gestione online della cantina.

Quando le bottiglie vengono messe in vendita (o devono essere assicurate), il Ledger di Autenticità e Provenienza è reso accessibile ai potenziali acquirenti , venditori e altri attori interessati.

Le informazioni sensibili sono criptate, mentre  non lo sono il nome dell’autenticatore, la data e il luogo dell’autenticazione , i nomi e le date delle vendite e dei venditori.

Ad ogni  variazione di proprietà,  i dati relativi alla provenienza sono aggiornati, contribuendo a preservare ed anzi accrescere il valore delle bottiglie.

Chai Vault rappresenta la forma più complessa e sofisticata di autenticazione dei vini, che parte da un livello di semplice comunicazione verbale,  telefonica o tramite incontro diretto, ma non per iscritto. Livelli  di reporting più formali sono disponibili ovviamente a costi più elevati.

Un’idea dei costi? Un semplice report verbale costa 250 dollari a bottiglia ispezionata  per tutte le bottiglie che non rientrano nella classe A (in questo caso il costo sale a 550 dollari a bottiglia): quelle nella classe A sono provenienti da vendemmie dal 1961 o più  indietro, i grandi formati, vini  di  négociants esteri o quelle di una ristretta lista di  produttori top (Domaine de la Romanée-Conti, Comte de Vogue, Henri Jayer, Domain Armand Rousseau, Domaine Roumier, Chateau Pétrus, Chateau Lafite.-Rotschild). Il costo di un  report  scritto (Formal Report) sale invece  a 850 dollari la bottiglia  per i vini della classe A e 550 per tutti gli altri.

Chai Vault rappresenta davvero la fine della contraffazione? E’ presto per dirlo, ma chi fosse curioso e volesse farsene un’idea più precisa, potrebbe dare un’occhiata al forum “Can block chain resolve the problem of wine counterfeiting, at least for future vintages?”su  Wine Berserkers.

Consiglio anche di consultare il sito di Wine Fraud,  sul quale sono disponibili tutte le informazioni sul lavoro della Downey e la sua squadra e le attività da esse svolte nel campo della prevenzione della contraffazione.

 

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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