Douro: Porto Vintage en primeur, cena in Quinta e non solo9 min read

Quinta Nova de Nossa Senhora do Carmo

Dopo una sostanziosa ed educativa giornata di tasting di vini rossi, giusto il tempo di una veloce rinfrescata nel mio tristissimo albergo (la receptionst ingrugnata non si vede più: che l’abbiano licenziata?), poi corro alla stazione di Regua per unirmi agli altri degustatori per la visita a Quinta Nova de Nossa Senhora do Carmo. E’ previsto un transfer via il treno che ormai ben conosco, fino alla stazioncina di …, che ha ragione di esistere solo poiché si trova nelle adiacenze di un pontile sul Douro. E’ un edificio sgarrupato, l’intonaco scrostato, una sala d’aspetto senza panche, con niente intorno, ma di notte è illuminato, forse per rincuorare chi si trovasse a passare di lì. Ci arriva uno stradello nel quale in qualche modo si è infilato un pullman GT che ci attende: una breve arrampicata lungo qualche tornante e siamo alla Quinta.

Trattasi di un investimento del ben noto produttore di tappi Amorim in zona Douro: non grandissima, è incastonata in un anfiteatro di vigne da cui si gode la vista di un’ansa del fiume alla suggestiva luce del sole calante. E’ anche una specie di agriturismo di charme, con l’avvertenza che soggiornare lì significa isolarsi dal mondo: il villaggio più vicino è Pinhao (non esattamente un luogo famoso per la movida), e la Quinta si trova veramente “a sei chilometri di curve dalla vita”, come recitava una canzone. Gli ospiti americani che bevono senza soluzione di continuità presso la piscina che guardiamo vogliosamente, e che molti usano come sfondo per un selfie, non sembrano darsene pensiero. In effetti il luogo, la luce, la vista inducono alla contemplazione, o all’edonismo reganiano.

Douro, la stazione di…

Dopo un breve saluto della proprietà, facciamo onore a un esteso buffet di specialità portoghesi, caldo verde e arroz … inclusi. Abbiamo a disposizione un rosato di stile pericolosamente provenzale, un bianco saporito e tonico in attesa di digerire il legno, e dei rossi ove l’impiego del field blend di vecchie vigne nobilita l’immediatezza di un frutto succoso con sapidità e finezza tannica. Si finisce in gloria con un Porto Vintage 2013 fantasmagorico, probabilmente un poco mortificato dal servizio in un bicchiere ISO da degustazione. La PR aziendale, vista la mia esaltazione di fronte a cotanto nettare, sorridendo provvede a che mi venga servito di nuovo.

L’artefice di queste delizie è l’enologo Jorge Alves, popolare in terra lusitana quanto un Cotarella nostrano. Pare simpaticamente sbracato, ma è esaustivo e paziente nel rispondere a tutte le domande, anche quelle più ovvie. Ci mostra pure una specialità duriense, ovvero una delle macchine (un poco riottosa ad accendersi, in verità) che hanno sostituito l’antica pratica di pigiare l’uva con i piedi nei lagar. La visita si conclude in un museo del Porto piccolo ma ben tenuto, consueta carrellata di antichi attrezzi, fotografie, documenti, ecc. E con saluti e omaggi agli ospiti il tour termina ormai all’imbrunire.

Il ritorno è una piccola avventura. Causa appunto la visita al museo, i tempi si sono dilatati (come previsto) fino a perdere l’ultimo treno della sera. Abbiamo il nostro bus, che però è TROPPO GRANDE per percorrere la strada più breve, verso Pinhão e a poi lungo il fiume fino a Regua (perché non due mezzi più piccoli? troppo costoso?). Corre l’obbligo di affrontare un itinerario alternativo, lungo le tortuose strade che si snodano tra le quintas in direzione Nord, per andare a prendere l’autostrada che precipita fino alla nostra destinazione. Il percorso è panoramico finché c’è luce, se non si temono l’assenza di guard rail e gli strapiombi sfiorati dalle ruote del pullman (per fortuna l’autista sa il fatto suo): bellissima ad esempio la vista di Quinta do Crasto, che si erge su una sorta di promontorio che svetta sul Douro. Ma poi si procede in un buio fitto, raramente punteggiato da qualche lumino improbabile, una curva dopo l’altra, un tornante dopo l’altro. Quando poi si raggiunge l’autostrada, il rateo di discesa verso Regua è aeronautico: pare di trovarsi su un velivolo che approccia la pista per l’atterraggio, con le luci delle case sotto gli altissimi viadotti che lentamente si avvicinano. E l’arrivo in paese strappa inconfessati sospiri di sollievo ai più.

Porto Vintage!

Al mattino dopo arrivo in leggero anticipo per il momento da me lungamente atteso: la degustazione dei Porto Vintage. Mi sono riservato un’intera sessione di assaggio di tre ore per una trentina di campioni: può sembrare un tempo eccessivo, ma è solo cautela, perché è la prima volta che affronto in batteria SOLO vini fortificati. L’en primeur, o meglio la primeira prova di prodotti destinati a durare decine d’anni può sembrare incongruo, ma dopo tutto si fa esattamente lo stesso anche a Bordeaux. E peraltro, è il pane quotidiano degli enologi che assemblano le partite di vino provenienti dai diversi vigneti (non dimentichiamo che il Porto è un vino di assemblaggio), nonché dei certificatori dell’Instituto do Vinho do Porto che devono autorizzare la sospirata categoria del Vintage: cuvée superiori per struttura ed equilibrio che possano bellamente affrontare decine di anni di affinamento. Considerando inoltre che negli ultimi anni, specie a causa del mercato americano, è invalsa la consuetudine di bere questi vini da giovani, godendone opulenza e impressionante impatto fruttato.

Istituto vino Porto

In sintesi, questi assaggi richiedono un giudizio ambivalente, ovvero la valutazione contemporanea della piacevolezza attuale e del potenziale di evoluzione, che devono essere compresenti. A parte l’ovvia attenzione per l’intensità e la varietà delle componenti aromatiche, si guarda alla grana del tannino (lo si vuole presente ma non rigido), e all’equilibrio, che garantisce facilità di beva e prospettiva di positivo invecchiamento. Esso è intrinsecamente legato all’acidità, che in questi vini è naturalmente nascosta dalla morbidezza e soprattutto dall’elevata gradazione alcolica dovuta alla fortificazione: pertanto massima necessita la concentrazione nell’individuare salivazione e/o eventuali percezioni di asciuttezza sul fin di bocca.

Le mie (grandi) aspettative non sono andate deluse: non mi stancavo di annusare calici che sprigionavano immacolati profumi di cioccolato, caramello, grafite, amarena, confettura di mora, spezie quasi annegate in questo tripudio di frutto. Al palato sempre magnifica la finitura dei tannini, figlia di un’annata positiva ma anche di una sapienza enologica nella vinificazione che ci si poteva anche aspettare: qui la grande criticità è infatti la necessità di estrarre il più possibile durante una macerazione sulle bucce di durata ridotta, prima della fortificazione con acquavite che interrompe la fermentazione (successivamente è sconsigliabile il contatto con le bucce: la gradazione alcolica è già elevata, e di conseguenza si estraggono rapidamente tannini e sostanze oleose dai vinaccioli che è meglio evitare). Di conseguenza gli enologi hanno maturato una grande perizia in merito. Eccessi e stramaturazioni erano pressoché assenti. Piuttosto, mi è parso intravedere una dicotomia di stili: da un lato vini molto materici, per questo chiusi all’olfatto ma futuribili; dall’altro, alcuni campioni più sottili, meno volumici a centro bocca, ma mirabilmente profondi e slanciati, già molto risolti al palato. Le mie note sono state lunghe e articolate, e mi sono impegnato per distinguere le referenze migliori in un contesto di fantasmagorico valore. Ero sempre stato un fan dei Porto più lungamente affinati in legno, stile Tawny (capita di sentirsi chiedere in degustazione: sei più Vintage o Tawny?), ma hai visto mai che mi debba ricredere…

Oporto

Last but not least: i bianchi

Dopo una corroborante zuppa al buffet del museo che ospitava le nostre degustazioni, e una “ora d’aria” nell’adiacente giardino vista fiume, curiosamente colonizzato da un gallo baldanzoso felicemente impegnato ad inseguire tutte le galline che gli capitavano a tiro, nel pomeriggio è stata la volta dei vini bianchi: dopo le emozioni della mattina, è stata come una corsetta di defatigamento dopo una gara di corsa con l’adrenalina a mille.

Cantina Porto a Oporto

Dico subito che sono rimasto molto meno impressionato rispetto ai precedenti assaggi, anche se verosimilmente, come sempre avviene, questi campioni erano più scomposti e meno leggibili. Pure qua gli uvaggi erano quanto mai variegati: non pervenuti i vitigni internazionali, le varietà più gettonate erano Viosinho, Gouveio, Arinto, e non mancavano i field blend, ovvero i “vinaggi” di vecchi vigneti piantati con uve miste, buona parte delle quali adesso forse sconosciute. Si poteva ipotizzare una pervasiva presenza dell’Alvarinho che così buona prova di sé dà a Nord del Douro nella zona del Vinho Verde, e oltre il confine spagnolo in Galizia: niente di tutto ciò, e anzi le relative referenze non erano affatto le più eccitanti. I migliori campioni esibivano colori giovanissimi praticamente verdolini, e profumi agrumati e di fiori bianchi con la frutta più matura un poco sottotraccia; palato di buona freschezza e più ancora rilevante presenza sapida, legno (quando c’era) usato con criterio. Assente l’appiattimento sul cosiddetto gusto internazionale in termini di ricerca di dolcezza e avvolgenza artefatte. Se non altro, si notava una certa caratterizzazione in termini di continuità stilistica. Verosimilmente (ma ovviamente occorrerebbe vedere caso per caso), i summenzionati assaggi più interessanti provenivano dalle zone più a monte della denominazione (maggiore elevazione ed escursione termica giorno/notte), con la componente sapida derivante dai suoli granitici che non sono ricompresi nella denominazione Porto (limitata a dove è presente l’ardesia).

La voglia di ritornare

Alla fine della degustazione, salutate le giovani organizzatrici cui posso solo essere riconoscente per l’occasione, e che peraltro hanno fatto un ottimo lavoro; concessomi un caffè nel giardino del museo e dopo aver doverosamente fotografato il gallo, mi è rimasto il tempo di visitare l’esposizione, spettacolare ma forse meno dettagliata dell’altro museo da me visitato a San Joao de Pesqueira. Ho fatto notare che in un luogo deputato al turismo del vino sarebbe d’uopo un book shop copiosamente fornito di pubblicazioni sul Porto di ogni forma e dimensioni, invece del tutto assenti (tutto sommato per me un bene, perché ne avrei fatto incetta…). Dopo un breve riposo in albergo, mi sono concesso una cena non memorabile (un altro ristorante consigliato dalla mia guida inglese…) e una passeggiata lungo il fiume in una serata silenziosa e limpida. Anche l’attività al molo delle navi da crociera e nei bar sul lungofiume pareva attutita. Le vigne terrazzate ricamavano i fianchi delle colline ove man mano si accendeva qualche timida luce, come è stato per secoli e mi auguro ancora per molto sarà. Mi coglieva un languore, una saudade per un luogo che stavo per lasciare, che non finiva di affascinarmi, e che potevo ricambiare per le emozioni profuse a piene mani solo con la promessa del ritorno, e queste poche righe.

Al mattino dopo, ho passeggiato fino alla stazione bagagli al seguito, con doverosa sosta e corroborante colazione presso quel caffè dove già mi sentivo di casa. Mentre il pestilenziale locomotore diesel sbuffava allontanandosi dal Douro ho risposto alla domanda che mi ero fatta prima di decidere di recarmi al miradouro di Quinta de Vargellas: chissà quando ci torno, da queste parti? Adesso con ragionevole sicurezza lo so: il prima possibile, magari il prossimo anno. Perché il Douro dà dipendenza.

In un successivo e ultimo articolo darò conto di quelli che mi sono parsi i migliori assaggi.

Riccardo Margheri
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