Collio tra le nuvole9 min read

C’è un Maestro tra le nuvole che qui vorrei ricordare: è Stanko Radikon, a cui devo molta della mia passione per il Friuli (per i luoghi, per i vini, per le persone, per la Gubana). Conobbi Stanislao e sua moglie Suzana a Concesio, vent’anni fa, durante la mia intensa, bellissima esperienza da primo sommelier al Miramonti l’Altro della famiglia Piscini. Da allora li ho sempre seguiti e ammirati, frequentando spesso la loro cantina, situata lungo il costone che dal ponte sull’Isonzo sale sul colle di San Floriano. Oslavia, oggi luogo di vignaioli visionari, più di un secolo fa divenne teatro di alcune delle più sanguinose battaglie della Grande Guerra, trovandosi ormai a ridosso della prima linea: cicatrici di cui è piena la storia di questa regione. Regione che Stanko ha onorato fino all’ultimo dei suoi giorni, firmando alcuni dei più straordinari vini friulani di ogni epoca. A lui si deve il focolaio che diede vita alla strada “orange” in Italia, quando nel 1995 vinificò sulle bucce una parte dei suoi bianchi con il sogno di ridare dignità al vino fatto in casa dai suoi genitori e dai suoi nonni, che lui tanto amava. Iniziò allora un percorso opposto a quello, molto ortodosso, dei cremosi e accalorati bianchi friulani di quel periodo. Io e Tamara gli siamo grati: adoriamo tutti i suoi vini, che sanno di sole e di nuvole, di terra e di mare, che se ne fottono della volatile perché hanno altre profondità da esibire. Oslavje 2014 è il nostro vino del cuore, un capolavoro che rappresenta l’ultima vendemmia (parzialmente) seguita dal Maestro, prima di consegnare definitivamente la sua eredità al figlio Saša. E prima di lasciare troppo presto questa terra, nel settembre del 2016.

 

 

C’è uno spicchio di Mediterraneo che confina con la Mitteleuropa: si chiama Friuli ed è impregnato di bravi vignaioli, di celebri vini bianchi e di scrittori che qui a vario titolo e per ragioni diverse ci hanno lasciato il cuore, raccontandoci epoche indelebili: Gino Veronelli e Walter Filiputti su tutti.

Per amore della verità va detto che solo una parte della regione possiede i presupposti per regalarci vini di alto profilo: essa corrisponde alla sua sezione orientale, quella a ridosso della Slovenia, là dove le terre di pianura cedono il passo alle colline (con l’eccezione delle migliori vigne pianeggianti e ciottolose lungo il corso goriziano del fiume Isonzo).

E non va taciuto, sempre per rispetto di chi ci legge, che oggigiorno i vini friulani in grado di lasciare il segno non sono tantissimi: troppi infatti sono i bianchi seriali, di respiro limitato, privi di reale complessità e incapaci di distinguersi in un contesto internazionale.

Si diceva delle colline. Qui sono basse in quota, dolci e affusolate nella morfologia e – soprattutto nel Carso e nel Collio (i Colli Orientali sono invece più spostati nell’entroterra) – godono della luminosità (filtrata e riflessa) del vicino Mar Adriatico a Sud, compensando tanto la presenza delle Alpi Giulie a Nord (che pure fungono da preziosa barriera contro il freddo più ostico di fine estate) quanto l’elevata piovosità regionale, ben più alta della media italiana (il dato pluviometrico annuale registra qui oltre 1100 mm e perfino di più in alcune aree interne della provincia di Udine).

È in quel suggestivo e spesso nuvoloso frangente orientale d’Italia, cerniera fragile tra Italia e Slovenia, che tanti di noi hanno viaggiato, studiato e visitato vigne e cantine, in cambio di persone, luoghi, sguardi e ricordi indimenticabili.

Per quanto mi riguarda, il Collio (Brda in sloveno) è l’autentico benchmark del vino friulano d’autore: circa 1500 ettari vitati camuffati in una parola brevissima, il cui suono tinge di bianco l’orizzonte di tanti bevitori italiani.

Non solo per i quasi sei milioni di bottiglie che ogni anno vengono immesse sul mercato (meno di settecentomila sono invece quelle di rosso), ma soprattutto per quanto si è andato depositando da decenni nella nostra memoria, che pressappoco corrisponde a un impasto di ogni uva e tipologia possibili: dal Friulano alla Ribolla Gialla; dalla Malvasia Istriana al Pinot Grigio; dal Sauvignon Blanc allo Chardonnay; dal Pinot Bianco alle tante ipotesi di uvaggio e/o assemblaggio più o meno autoctono e più o meno esterofilo a seconda di tante (troppe) opzioni varietali possibili. Un impasto che è allo stesso tempo lievitato a suon di sogni, avanguardie, rivoluzioni e involuzioni, successi e fallimenti.

Nel Collio, mezzo secolo fa, tra le sue terrazze marnose, i suoi borghi silenti, i suoi ronchi ondulati, i suoi campanili appuntiti, furono colti i primi germogli di quella che si sarebbe rivelata la primavera del vino italiano e che avrebbe trasformato nel giro di pochi anni i contadini in imprenditori, le loro botteghe in cantine di alta tecnologia e i loro liquidi rustici in essenze profumate, trasparenti e freschissime.

In quel periodo lì, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, nacquero i moderni bianchi friulani: vini che irruppero con la forza di un elefante in un mercato monopolizzato da una tradizione priva di sensibilità, di cultura e di conoscenze specifiche.

Mario Schiopetto ne fu il pioniere: il suo messaggio (attente selezioni vendemmiali, vinificazioni in acciaio ed esaltazione del carattere varietale dei singoli vitigni lavorati e imbottigliati in purezza) scardinò regole statiche da decenni, rivoluzionò il concetto di qualità e inventò una nuova maniera di intendere la viticoltura e l’enologia.

Dopodiché si sperimentarono stili sempre più prossimi alla Borgogna (prediligendo il legno all’acciaio) e poi sempre più indirizzati alla cremosità tropicale di certo Nuovo Mondo (prediligendo l’acciaio al legno), una strada fin troppo emulata e con derive talora caricaturali, tanto che molti bianchi locali appaiono oggi più alcolici che non mediterranei; più grossi che non polputi; più larghi che non ampi.

Nel frattempo, proprio al crepuscolo del secolo scorso, mentre la tecnologia prendeva il sopravvento sugli aspetti umani del vino d’autore e uniformava l’espressione perfino dei vini più blasonati, si imposero sul mercato i bianchi ottenuti con macerazioni arcaiche, lasciando fiorire uno dei più autorevoli movimenti artigiani al mondo. In tal senso, vignaioli del calibro di Josko Gravner, Saša Radikon, Dario Prinčič, Stefano Bensa, Damjan Podversic, Franco Terpin e Evangelos Paraskos, meritano tutti la nostra attenzione.

Compreso nella provincia di Gorizia e chiuso tra i Colli Orientali, la Slovenia e l’Isonzo, il Collio è la prima denominazione d’origine controllata ad essere stata riconosciuta nel Friuli Venezia Giulia (24 maggio 1968) e anche l’unica (insieme al Carso) ad avere uno sviluppo esclusivamente collinare.

Colline che, fatta eccezione per la piccola isola di Farra d’isonzo (completamente circondata dalle pianure del fiume omonimo), si sviluppano a forma di mezzaluna e in senso antiorario da Dolegna del Collio fino a Oslavia di Gorizia, passando per Cormòns (vero e proprio cuore viticolo del comprensorio), Capriva del Friuli e San Floriano del Collio. Hanno invece un peso del tutto marginale nell’economia vitivinicola del territorio i comuni di Mossa e San Lorenzo Isontino.

Proprio questa conformazione fa sì che al suo interno si possano individuare due sottozone che per comodità e facilità di lettura chiameremo “esterna” e “interna”. La prima va da Brazzano di Cormòns a Capriva (comprese le sue storiche località: Spessa e Russiz di Sopra e di Sotto) e raggruppa le colline ubicate a stretto contatto con la pianura isontina, dove l’altimetria è modesta e le temperature diurne più elevate rispetto alla media del territorio. La seconda invece interessa i comuni di Dolegna del Collio, le località di Plessiva e Zegla di Cormòns, il comune di San Floriano e la frazione goriziana di Oslavia, abbracciando i luoghi che si snodano sul confine sloveno: qui si alza l’altitudine, il vento di bora è più incisivo e le temperature estive si fanno più miti.

La viticoltura del Collio si sviluppa lungo sinuosi terrazzamenti posizionati in prevalenza tra i 90 e 270 metri sul livello del mare (la media è comunque di poco superiore ai 140) e affonda le sue radici su suoli in buona prevalenza di origine sedimentaria a composizione marnoso-arenacea (conosciuti sia con il nome scientifico di Flysch di Cormòns, sia con il nome vernacolare di Ponka). Si tratta di terreni poco fertili, poveri di calcare attivo e piuttosto scarichi di sostanze organiche. Rappresentano invece una rara singolarità le terre rosse acide e non ferrettizzate che si trovano in una piccolissima porzione delle località di Plessiva (frazione di Cormòns) e di Lucinico (frazione di Gorizia).

Collio Suddivisione superficie vitata

L’età delle vigne è un media di vent’anni, ma non mancano parcelle che hanno il doppio degli anni, alcune delle quali “plurivarietali”, ovvero coltivate mescolando più vitigni (soprattutto Friulano, Malvasia Istriana e Ribolla Gialla). Pur essendo il Guyot Semplice la forma di allevamento più utilizzata dai produttori locali, alcuni di loro – soprattutto negli impianti più antichi – prediligono perpetrare il sistema tradizionale , ovvero il Doppio Capovolto o Cappuccina (in genere potato più corto rispetto al passato). Quasi del tutto estinti sono invece Sylvoz e Casarsa.

Variegata è la presenza dei portainnesti: nei siti più maturi prevale il vigoroso Kober 5BB (pressoché abbandonato negli ultimi anni), mentre in quelli di penultima generazione si è utilizzato soprattutto l’SO4. Oggi invece agronomi e vignaioli subordinano la scelta in funzione della giacitura, della qualità dei suoli e della fittezza dei sesti: 420 A, 101-14, 161-49, 110 Richter e 3309 sono i <<selvatici>> più adottati.

Il clima in Collio è tra i più miti e ventilati della regione, favorito dalla presenza delle Alpi Giulie a nord-est e dalla relativa vicinanza del mare da cui dista una trentina di chilometri. Tale condizione assicura temperature estive non molto calde, buone escursioni termiche giorno/notte e precipitazioni frequenti, al solito più elevate nel periodo primaverile e soprattutto nella fascia collinare più interna del territorio (tra Dolegna, San Floriano e Oslavia).

Ora non resta che il viaggio. A chi non ha mai camminato quelle terre, io dico: non avete idea di quanta forza sprigionino; non avete idea di quanto mistero conservino. La gente da quelle parti è gentile e riservata, benché sappia essere a suo modo aperta e festaiola. La loro statura è spesso imponente ma la postura è semplice, con sguardi subito accoglienti.

È una terra di ardori e di guerre, di sorrisi velati e di cicatrici drammatiche; una terra storta di curve, colorata di chiaroscuri e animata di storie forti.

Eppoi i friulani sono ospiti generosi, bisogna approfittarne.

 

La foto di copertina  è del Consorzio Collio, che ringraziamo.

La foto di Radikon è di Mauro Fermariello, che ringraziamo.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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