Colbacco, que viva Umbria!4 min read

E’ veramente con grande, grandissimo piacere che diamo il benvenuto tra le fila di Winesurf a Sara Boriosi. Sara ha le capacità per scrivere di qualsiasi argomento e su Winesurf speriamo proprio lo voglia e lo possa (impegni permettendo) fare. Intanto si presenta con un articolo su una piccola azienda umbra, produttrice di vini molto particolari. Benvenuta Sara!

A forza di dire che l’Umbria è verde, gli umbri se la sono tirata pesantemente: uno degli ultimi baluardi politici della gloriosa tradizione rossa è caduto rovinosamente durante le regionali del 2019, ammantando di verde (si fa per dire…) non solo le ombrose colline del territorio, ma anche l’amministrazione regionale.

Di quel fasto che fu è rimasto un manipolo di giovani produttori vinicoli dal grande appeal, capaci di coniugare una certa idea di vino piuttosto cruda a un’immagine di rispetto del territorio e alle sue radici storico geografiche: il Collettivo Colbacco. Chiari riferimenti nostalgici volti a una produzione vinicola poco manipolata e vagamente romantica.

Colbacco nasce da un’idea partorita dalla mente fervida di Guido “Zaffo” Santarelli, grande appassionato di vini naturali; un brontosauro degli amanti del genere raw, in pista da almeno quindici anni.

Durante un servizio televisivo riguardante l’opera di recupero di vigne abbandonate per mano dei due vignaioli di Lumiluna (Giulio Rinaldi e Luca Bigicchia) Santarelli ha preso la palla al balzo cercando un contatto per avviare il progetto, sostenuto dalla mano sfacciatamente sperimentatrice di Marco Durante – meglio noto come Signor Kurtz – amico di bevute e compagno di assaggi nelle fiere di vino naturale.

I quattro di Colbacco sono molto fighi, esteticamente coerenti (tre su quattro hanno una barba da far invidia al più glamorous dei seguaci di Simeone Stilita), tutti molto ruvidi e profondamente legati alle zolle di terra che maneggiano con vigoroso amore.

Ognuno di loro lavora ai propri progetti in modo del tutto indipendente e svincolato dal Collettivo, in totale autonomia. Tengono a ribadire la propria individualità durante il lavoro in vigna, ed è proprio in vigna che è nato il nome Colbacco, grazie al copricapo-feticcio indossato da Giulio Rinaldi durante la vendemmia.
Dopo l’accurata presentazione dei Fab Four in salsa marscianese, viene da domandarsi che razza di vini escano da menti tanto creative.

Ebbene, la produzione del Collettivo non delude le aspettative: vini ruvidi, territoriali (se si considera il merlot un’uva che ha rese felici in queste lande voluttuose), senza manipolazioni come filtrazioni, chiarifiche, solfitazioni e altre amenità. Solo una pompata di rame quando necessario, e poco più.

Questo è il momento in cui lo storytelling prende una luce più intima e vera, ma parlando dei vini prodotti non è possibile esimersi dal descrivere una vigna dalla quale provengono. La vigna più bella, sul crinale più alto dove lo sguardo si perde nei colori ombrosi e ricchissimi del paesaggio naturale circostante, la vigna del Casale dei Fratelli Ceci: partigiani, sacrificati per l’ideale di libertà di cui si abusa impropriamente in questi tempi aridi.

È da quella vigna che proviene il grechetto utilizzato per il Belgrado, il rifermentato. Grechetto in maggior percentuale, trebbiano e pinot bianco per chiudere; un vino succosissimo e dissetante, sfacciato e grezzo, che risponde precisamente all’idea di autenticità che i Colbacco vogliono trasmettere. Un vino che va giù in due sorsi, e viene da chiederne ancora.

Della stessa provenienza, quello che compone parte delle uve usate per il Kalima, il cui nome evoca una divinità bellicosa; un assemblaggio di grechetto (mi sembra di ricordare che sia il clone G 109, secco e dalla schiena dritta) e trebbiano toscano entrambi provenienti dal “Cru Bigicchia”, ovvero le uve originarie della vigna di famiglia di Luca, il più giovane dei quattro colbacchi. Macerazioni lunghe danno un vino intenso, muscoloso e robusto: un bianco terragno materico e compatto, massiccio come certi soggetti che bazzicano le campagne umbre quando la stagione della caccia al cinghiale è aperta.

Di altra beva è il Maracaibo, che evoca la canzone sdoganata da Jerry Calà e suoi trenini della nostra giovinezza smeralda, ma che di fatto parla di un amore tragico tra una ballerina spregiudicata e il Lìder Màximo, terminato con un tentativo di fuga rocambolesca da parte della protagonista verso il Venezuela. Un rosato rifermentato da sangiovese tutt’altro che esile e sottratto, di carattere forte, quasi ingombrante, incazzoso e volubile. Un vino che racconta storie di chi ne ha viste di tutti i colori e non si stupisce con facilità, che spiazza per la capacità di essere bevuto da palati ingenui o smaliziati, espressione libera di sangiovese umbro, tipicamente più panciuto di quello prodotto oltre confine.

Per finire il Quarto Protocollo, blend di merlot e sangiovese poco alcolico e assai beverino. Un rosso ingentilito per questi lidi. I quattro colbacchi, ispirati dall’omonimo romanzo di Forsyth, dicono che sia un vino di stampo sovietico nell’accezione più pura del termine: esecuzione rigorosa per una beva scanzonata, è adatto a tutti i palati e a quasi tutti gli abbinamenti possibili con le varietà (poche ma golose) della cucina del centro Italia.

Se è vero che l’Umbria è sonnacchiosa perfino per gli occhi attenti di fotografi come Steve McCurry, a cui è stato affidata l’impresa epica di rendere attraente la regione,  il progetto Colbacco è la prova che sotto la cenere c’è ancora fuoco pronto a ardere e ridare appeal all’immagine della produzione di vino in Umbria.

L’Umbria è viva, que viva Umbria!

Sara Boriosi

Cresciuta per caso a Perugia, ho dedicato la mia vita epatica alla causa enoica: lavoro con soddisfazione per un’importante enoteca della città e scrivo di vino qui, nel mio blog rossodisara.org e nell’archivio di assaggi di cui sono co-fondatrice, intralcio.it.


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