Chianti Rufina: più omogeneità e qualità media in aumento3 min read

Siamo tornati ad assaggiare i Chianti Rufina dopo quasi cinque anni, che in campo enoico possono tanti e pochi. Tanti se quel territorio è in pieno fermento e in forte cambiamento, pochi se la situazione è invece piuttosto statica.

La Rufina, da quanto emerso dai nostri assaggi è più spostata verso la seconda possibilità. Da una parte infatti non c’è stata una crescita del numero delle aziende mentre dal punto di vista qualitativo il discorso è abbastanza a “macchia di leopardo”.

 

Per chi non conoscesse il Chianti Rufina ve lo presentiamo brevemente. Siamo alle porte di Firenze in una zona collinare che parte da est, proprio dal corso dell’Arno e sale verso l’Appennino. Quindi siamo in presenza di terreni molto diversi come altezza, esposizione, composizione ma  alla fine una caratteristica che lega la stragrande maggioranza dei produttori è la freschezza di questi  vini.

 

I Chianti Rufina hanno una superiore acidità (e magari un PH più basso) rispetto alla maggioranza dei cugini chiantigiani e questa caratteristica li porta spesso ad essere vini che vanno saputi attendere, che hanno bisogno di maggiore affinamento sia in legno che in bottiglia.

 

Questa caratteristica, anche se stiamo parlando di vini dove il sangiovese domina, da una parte è un pregio ma dall’altra (visto l’imperante voglia di vini rotondi e pronti) è sicuramente un problema,  ampliato dal non avere massa critica per poter affrontare il mercato. Si parla infatti di nemmeno 3 milioni di bottiglie, divise tra 20-25 produttori, con tre-quattro cantine che fanno la stragrande maggioranza dell’imbottigliato e i rimanenti che difficilmente superano le 50.000 bottiglie.

 

Ma non di sola freschezza vivono i Chianti Rufina, anche se il fil rouge era, ed oggi lo è ancor più, come utilizzare al meglio le caratteristiche del sangiovese locale.

 

Cinque anni fa si usavano strade diverse rispetto ad oggi.

 

Per dirlo mi cito, prendendo  una frase da me scritta durante un’anteprima del Chianti Rufina quasi 6 anni fa “ho trovato almeno cinque tipologie: il tradizionale, il tradizionale ma non troppo, l’internazionale, il superbarriccato per niente pronto (almeno spero per lui) e  il pronto-pure-troppo.”

 

Questa era la situazione di qualche anno fa, che fotografava una piccola denominazione dove ognuno andava praticamente, anche se non ufficialmente,  per conto proprio. Nei nostri assaggi di pochi giorni fa queste enormi differenze si sono molto smussate, riconducendo il discorso alla radice sangiovese, declinato con maggiore rispetto delle caratteristiche della denominazione.

 

Certo, ci sono ancora vini che puntano più sulla rotondità internazionale, sull’aiuto di merlot e cabernet, ma sono sempre meno e lo fanno un po’ più “di nascosto”, capendo forse che il mondo sta cambiando.

 

E sta cambiando anche il modo con cui gli imbottigliatori della Rufina si presentano sul mercato, finalmente con vini migliori, che la frase “buon rapporto qualità prezzo” fotografa in maniera puntuale.

I grandi nomi del territorio? Qualcuno bene qualche altro un po’ appannato, forse a causa di vendemmie a cui si è voluto chiedere molto, trovandosi quindi con vini ancora compressi, soprattutto dal punto di vista olfattivo.

 

Da un punto di vista puramente numerico la media stelle a 2.60 è migliore di quella di qualche anno fa e la cosa assume ancora più importanza se si considera che oltre il 50% dei vini proveniva da annate difficili come 2013 e 2014, dove non è stato facile portare il sangiovese, specie in zone alte e fresche, a maturazioni adeguate.

 

In definitiva crediamo che il livello della denominazione sia in crescita, come sta crescendo la voglia dei produttori di mettere in campo una specie di “Gran Selezione” della Rufina, ispirandosi a quanto fatto dai colleghi chiantigiani.

 

Chiudiamo rimandandovi tra qualche giorno all’articolo sulle vecchie annate (degustate di seguito ai vini in commercio), un campo dove la Rufina ha sempre avuto molto da dire.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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