Château ? No, Ciabot !5 min read

In Piemonte, nel Roero si rivalutano le costruzioni rurali

Alcuni giorni fa, mentre viaggiavo in auto, mi è balenato per la testa un pensiero e di conseguenza mi sono posto una domanda. Chissà se la lodevole iniziativa dell’Enoteca Regionale del Roero sulla ristrutturazione dei Ciabot riuscirà nel tempo a creare un valore storico, culturale e monetario per questo lembo di Piemonte?
Se passerà il concetto che ha molta più attinenza, con una bottiglia di vino, un Ciabot rispetto a un castello? Il Ciabot del Roero è quella piccola costruzione rurale in muratura presente in quasi tutte le vigne di questa terra Sabauda; è la piccola casetta immersa nell’uva. Per anni ha avuto funzione di ricovero per gli attrezzi da lavoro, di posto dove riposarsi e pranzare durante la vendemmia,  di garitta di guardia ai frutti dei filari, di luogo per gli amori segreti o definiti tali: e lo sa bene la Luisa.
Il Ciabot, in poche parole, è storia e cultura contadina, è estetica del paesaggio, è armonia per le colline;  è parte integrante della bottiglia vino. Forse molto di più di uno “Château”.
Se anche noi italiani, così come i francesi, avessimo saputo nel tempo evidenziare alcune parole della nostra lingua o, meglio ancora, appartenenti ai tanti dialetti locali, non tanto per i loro veri significati ma per ciò che hanno e rappresentano ancora oggi, avremo dei valori aggiunti. Mi spiego meglio. In Francia se un vino si chiama, per esempio, “Château Dominique” noi in quel termine focalizziamo d’istinto un qualcosa di straordinariamente affascinante, elegante, raffinato, a dir poco esclusivo. Ma se, per altrettanto esempio, nel Roero in Piemonte un vino si chiama: “Ciabot Menico”, la dicitura alle nostre orecchie non risulta poi così signorile. Ci ricorda il mondo campestre, agricolo, selvatico, in pratica non ha nessun valore aggiunto. Al contrario, tende quasi a sminuire il vino stesso.
Il termine Château, che letteralmente significa castello, maniero, non ha avuto sempre attitudine con il vino. Quanti castelli o fortezze sono stati edificati nella storia per essere ad esclusivo appannaggio della produzione enologica? Non penso che siano stati poi così tanti, mentre il Ciabot è nato con il vino.
I francesi in effetti sono sempre stati più bravi nel vendere le loro cose; forse sono più uniti, più popolo, più orgogliosi di essere francesi. Per noi italiani è tutto diverso. Siamo più introversi, timidi, ci comportiamo in modo riverente di fronte a tutto ciò che è straniero, sottovalutando troppo spesso le nostre potenzialità. I Ciabot ne sono un esempio lampante. E’ vero che le abitudini sono negli anni cambiate e che le nostre casette non hanno più le funzioni di un tempo; gli attrezzi da lavoro infatti ora si depositano in azienda e il pranzo della vendemmia lo si consuma seduti a tavola. L’uva non si rubacchia più, meglio le carte di credito, e per gli amori semi clandestini ci sono dei riservati e comodi alberghi ovunque: e la Luisa lo sa.
Ma tutto questo non significa dimenticare quella parte integrante del vino di questa terra: al contrario, va giustamente valorizzata.
Per fortuna nel Roero non mancano persone riflessive e, probabilmente, un pochino francesi e l’iniziativa dell’Enoteca ne è una testimonianza. Da alcuni anni è stata promossa un vera crociata per la ristrutturazione dei Ciabot. L’Enoteca elargisce un piccolo contributo ai proprietari delle costruzioni contadine, quasi sempre produttori di vino e non solo di uva, mentre il mancante viene investito dai produttori stessi. Dico investito e non speso perché, secondo me, è un ottimo investimento e qualcuno per fortuna lo ha compreso. Anno dopo anno sempre più Ciabot vengono risistemati, alcuni solo per il piacere estetico del paesaggio, altri con funzioni molto intelligenti. Salette degustazioni, luoghi per il pernottamento, punti d’incontro per gli amanti del buon vino e del buon cibo. Pensate che piacere può dare il trascorrere una giornata in vigna con il produttore che, mentre si degusta un vino, spiega, racconta, illustra il suo lavoro e, di conseguenza, cosa stiamo bevendo. Lo si può fare stando comodamente seduti dentro un vecchio Ciabot con lo sguardo che spazia tra i filari delle colline roerine, godendosi il piacere di questa terra all’interno di un bicchiere o dentro un piatto tipico; per non parlare delle sensazioni che si possono provare spendendo una notte, magari in buona compagnia, tra il silenzio dell’uva. Qui, si può veramente vivere la vigna in una condizione completamente diversa rispetto ad altre situazioni, territori o, perché no, castelli.
Si può arrivare già al mattino di buon ora, lasciare l’auto e dimenticarsi della vita e i problemi di tutti i giorni, all’ora di pranzo non c’è bisogno di muoversi, si rimane in vigna, ci si accomoda all’ombra del Ciabot e si rivive l’emozione di un tempo arcaico ma ancora tanto caro: il vino, che il vostro ospite vi porgerà, sarà per voi un piacevole complice.
Mi piace tutto questo e in tutta sincerità spero di cuore che  l’iniziativa in questione vada fino in fondo, che presto venga creato un vero percorso dislocato tra vigne e Ciabot. Immagino un tracciato che possa offrire a tante gente la possibilità di vivere questo anfratto di Piemonte sostando qua e la tra un Arneis e un Nebbiolo, un insaccato e un formaggio, un produttore e l’altro, potendo alloggiare all’interno delle piccole casette rivalutate. Produttori come Malvirà, Correggia, Ponchione, Ferrio e tanti altri hanno già ultimato i lavori, mentre alcuni, come Negro, stanno per accingersi ad iniziare le opere di ristrutturazione.
Stavo arrivando alla fine del mio viaggio quando ho pensato che l’idea è buona e che può essere un’ulteriore mezzo per fare conoscere di più il Roero e suoi grandi vini poi, sorridendo, mi sono detto: “potrebbe essere un valido motivo per dire: Château? Noooo, Ciabot”.

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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