Bottiglie della memoria6 min read

Alla persona più cara che ho al mondo, una donna. E al suo eterno sorriso.

 

“Talvolta accade: provi ad accendere una lampadina e appicchi involontariamente un incendio. Fiamme che lasciano braci di emozioni”.

 

“Stappare e versare un buon vino è il mio modo di coccolare le persone che amo. Un gesto di sincera devozione”.

 

 

 

Stasera a Terralba soffia il Maestrale che Dio lo manda e fa più freddo del previsto. Vento insidioso, che quando sono stanco mi fa venire mal di testa. Ho già ingoiato un Moment.

 

Le dieci e quaranta, indosso al volo un paio di scarpe ed esco a fare due passi. Fuori c’è aria di apocalisse: tra una raffica e l’altra, mi domando che fine abbia fatto l’umanità.

 

Sono qui a caccia di qualche bollicina sarda per il mio libro: stamani, appena sbarcato ad Alghero, ne ero entusiasta, ora però sembra che il mondo abbia improvvisamente chiuso i battenti. Non so se per consolarmi o per farmi del male, ma ho una voglia matta di Sambuca con ghiaccio. Prendo l’auto e provo a intercettare un bar aperto, direzione Oristano.

 

Passo per Arborea, la strada è stretta e dritta, ci sono tanti ricci che passeggiano pacifici, in compenso l’Uomo continua a non dare segni di presenza. Nemmeno un rumore, nulla di nulla: il cielo è cupo e freddo come pioggia. Siamo ai margini occidentali d’Italia o ai confini del pianeta?

                    

Dieci chilometri e arrivo a Santa Giusta, mi fermo sul bordo di un grande stagno che si allunga, sfinito, fino al porto di Oristano: il porto sta in fondo, sulla mia sinistra, è un modesto agglomerato industriale, di una mole goffa e triste, le sagome sono riconoscibili grazie alle luci del cantiere, fredde e drammatiche, senza speranza.

 

Mi ritrovo per inerzia a Oristano, la città meno sarda che potesse capitarmi di visitare. Così, di notte, sembra un paesone padano, piatto e scolorito come una pelle di animale lasciata al sole per lunghe stagioni. Il mare non si vede, l’aria però è salmastra. Attraverso la periferia, giungendo quasi fino a Cabras: una periferia casuale, irriferibile. È buio pesto e lo sono anch’io.

 

Mezzanotte passata. Torno indietro col broncio, senza Molinari. Mi fermo a un passaggio a livello chiuso, il treno tarda, intorno solo modesti alloggi turistici male addossati gli uni agli altri, divisi da vicoli oscuri e da palme malaticce: spengo il motore lasciando i fari accesi. Un vecchio cane randagio attraversa la strada e si ferma a fissarli senza provare fastidio, credo sia quasi cieco, suono il clacson affinché possa togliersi dai binari. Mi fa tenerezza al punto da commuovermi. Lui è davvero solo.

 

Apro il finestrino: la macchia mediterranea, il sale, la massicciata della ferrovia e l’umidità del vento provocano un “aerosol” che sarebbe impossibile ricreare in qualsiasi cantina dell’universo e nemmeno in laboratorio: mi ricorda un vecchio Marsala con una spruzzata di Etna, di Sulcis e di Tirso. Madre Natura è davvero imprevedibile. Così come bizzarra è la mia testa, che all’improvviso si trasforma in una specie di ottovolante conducendomi senza una ragione apparente alle bottiglie di vino più emozionanti della mia vita. Talvolta accade: provi ad accendere una lampadina e appicchi involontariamente un incendio. Fiamme che lasciano braci di emozioni.

 

Che bella cosa, la memoria. La memoria spalanca persiane serrate e lascia entrare vitali strisce di sole. La memoria conserva intatta una felicità per sempre scomparsa e trattiene la fuga del tempo. La memoria è la persistenza della vita. Senza la memoria non esisterebbe la storia, non vi sarebbero i presupposti di una civiltà e la nostra esistenza sarebbe solo un’invincibile metastasi, un’agonia senza scampo. Ci vorrei scrivere un libro con la memoria, senza consultare appunti né fonti, come fece Edmondo Berselli per “Il più mancino dei tiri”, il suo capolavoro. Ma Berselli era una specie di semidio. Io solo un falco a metà.

 

Le bottiglie, dicevo. Non per forza le migliori, solo quelle che scoperchiano sensazioni “altre”, angoli di tempo e di sapori che nessuno potrà chiudere, cancellare. Del resto è appena cominciato il giorno della festa della donna. E tutto si lega. Si lega e s’intreccia fino a stringermi forte, portandomi conforto. Nessun odore specifico, solo la sensazione, incisiva, del fuoco. Della passione. Dell’amicizia. E la felicità per le piccole cose. Stappare e versare un buon vino è il mio modo di coccolare le persone che amo. Un gesto di sincera devozione.

 

Grands Echezeaux Gros 1961. Una nube di trasparenze. Insospettabile grazia. Effetto alone devastante. Panoramica sconfinata sul tema degli agrumi e dei metalli. E dell’amore. “Voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi”, scrisse Neruda. Ecco, proprio così.

 

Sassicaia San Guido 1968. Velluto e sottobosco, luce criptata, freschezza di balsami e macchia mediterranea, portamento borghese, ottocentesco, ma con un sapore attualissimo. Fu la prima annata commercializzata a San Guido (condita da un saldo di ’69). Ne bevemmo due dita anche il giorno dopo: ancora più buono, accidenti. Da allora Nino Re è nel nostro cuore.  

 

Cristal Roederer 1996 e 2002. Quintessenza della vinosità, del garbo e dell’evoluzione (mirata, impeccabile, né più né meno di quanto fosse necessario). Con buona pace del professor Moio, la vinosità in Champagne è cosa seria. Talmente seria da strapparmi un dolce sorriso a distanza di anni. Un sorriso, il suo, che ancora oggi mi dà i brividi.

 

Krug Rosé. Quello con la vecchia etichetta: per intenderci, la “retro” indicava ancora Antinori come importatore (rarità assoluta). Testimonianza di uno stile e di un’evoluzione non più realizzabili con le nuove cuvée. Ricordo gli sguardi di lei, strabiliata come una bimba al luna park, i suoi occhi giganteschi e luminosi che urlavano stupore. Dio quanto era buono. Dio quanto era bella (lo è ancora, lo sarà per sempre).

 

È la decima volta che ascolto “Wish you were here” dei Pink Floyd: How I wish/how I wish you were here/We’re just two lost souls swimming in a fish bowl/Year after year/ running over the same old ground/What have we found? The same old fears…

 

È ora di andare a nanna ma tirerei avanti per giorni, il treno è passato, un trenino del Far West che forse trasporta la troupe di un film d’altri tempi, forse ci sono Dean Martin e Walter Brennan e stanno girando il sequel di “Un Dollaro d’onore”. Forse è davvero così. O forse no.

 

Fatto sta che per chi mi legge è l’8 marzo. Viva le donne.

 

Viva le donne non solo oggi, e anzi, soprattutto da domani.

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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