André Beaufort, introduzione a uno stile10 min read

<<Gli Champagne di Beaufort all’inizio? È come addentrarsi nelle tenebre e farsi largo con la luce pallida della luna sospesa in alto, distante e necessaria. È come accamparsi nella foresta più fitta in preda alla natura selvaggia, che ha occhi felini e suona musiche animali. È come scaldarsi con tizzoni di fuoco primitivo, che a stento pulsano calore nell’invincibile gelo nordico. E alla fine? Ah, niente, alla fine è come stare nel salotto di casa, seduti in poltrona con la coperta sulle gambe, un buon libro da centellinare e in sottofondo “Non Je N’ai Rien Oublie” di Charles Aznavour.>>

 Se i grandi produttori occupano un posto molto prezioso nella nostra vita di appassionati; se nutriamo nei loro confronti una forma di gratitudine, talvolta perfino di venerazione, è perché sono stati capaci di lasciare il segno. Questo succede anche in altri ambiti: nelle lettere, nelle scienze, nell’arte, nel cinema, nel giornalismo, nello sport. Sono grandi coloro che illuminano qualcosa che alla nostra vista è oscuro oppure invisibile.

Nel vino è davvero grande chi non si limita a imbottigliare liquidi eccellenti, operazione già piuttosto complicata, ma va addirittura oltre, sfidando le convenzioni, anticipando i tempi, rendendo plausibile ciò che non lo era. In tal senso, Jacques Beaufort appartiene appieno alla schiera di quelli per cui vale la pena, ogni volta, lasciarsi andare all’ascolto e all’emozione.

Lo so bene che gli Champagne della famiglia Beaufort su due piedi possono apparire ostici da comprendere; sono vini di notevole personalità e vanno stanati. Ma quanto li stani, è tutto più facile: si possono percorrere lunghi sentieri di conoscenza (dentro e fuori il vino) ed è facile ricordarli a lungo.

La loro prima qualità è nel movimento al palato, dove il liquido appare carnoso e vivido di intrecci sapidi; è un movimento che dà vita, dà energia. Tutto ciò che è movimento produce vita. Sempre.

La loro seconda qualità è che dopo adeguata maturazione, dopo qualche anno di affinamento post-sboccatura, regalano un enorme soddisfazione fisica, una soddisfazione che annienta ogni resistenza razionale e ti acceca di piacere.

La loro terza qualità è che in essi percepisci tutto: acidità, salinità, intensità, densità, profondità; la trazione è integrale, lo sviluppo della trama è tumultuoso, la persistenza è appagante, la tecnica mai prevalente sulla matrice territoriale, lo stile mai prevalente sulle caratteristiche del millesimo.

La loro quarta qualità è che puntano all’anima prima ancora che ai sensi: sprecano precisione calligrafica e dilapidano frutto per farsi fronda d’inverno, per farsi fuoco che scalda, per farsi dimora che coccola.

La loro quinta qualità, e qui mi fermo (lasciando proseguire a voi, l’elenco), si rivela a tavola. Si tratta di Champagne in grado di crescere all’aria e di piegarsi al cibo in modo servile, umile.

Quando un giorno qualcuno scriverà la storia sulla Champagne degli ultimi quarant’anni, e con il passare del tempo saranno sopite le polemiche, estinte le acrimonie, perdonate le immodestie, svaporate le invidie che si agitano nell’enomondo, quel qualcuno dovrebbe accorgersi che Jacques Beaufort ha squarciato come un fulmine il cielo patinato dello Champagne.

Al pari di Anselme Selosse, altro produttore d’immenso talento che tuttavia non ha mai scelto la strada più radicale della viticoltura naturale, Beaufort lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo: c’è chi stravede per il suo stile fatto di dolcezze autunnali e di sapori ruspanti, e chi lo disprezza; chi lo ritiene una leggenda vivente e chi lo relega nella paccottiglia del “tipologicamente non credibile”.

Qui giocano un ruolo importante l’educazione di ciascuno, le visioni della vita, i paesaggi dei propri sentimenti, e anche parecchia supponenza: ho sentito affermare che gli Champagne di Beaufort “puzzano”. Santocielo, no! La purezza disarmante di Ambonnay 1996, la mineralità grintosa di Ambonnay 1998, la quadrata solidità di Ambonnay 2003, la prosperosa personalità di Ambonnay 2009 e la campestre agilità di Ambonnay 2011, solo per citare alcune referenze ancora in vendita, non mostrano alcuna incertezza penalizzante nella confezione, per quanto mi riguarda.

Eccezioni illustri a parte, il panorama della Champagne degli anni Settanta e Ottanta è stato ripetitivo e omogeneizzato, quindi rassicurante. Con la diffusione dell’acciaio, l’adozione di un’enologia performante e la supremazia del mercato si è messa in un angolo la ricerca del genius loci, andando in direzione della linearità stilistica, in un manierismo osservante, come il treno che fila liscio e diritto alla conclusione scontata, senza scartare, senza deviare dal più prevedibile tracciato tipologico. Questo percorso enologicamente corretto ha esiliato sperimentalismo e avanguardia, livellando gli Champagne su scenari buoni e perfino ottimi e talvolta eccellenti, eppure prevedibili, con tante cuvée ad alto tasso consolatorio che disertavano immancabilmente l’appuntamento con l’originalità.

Tutti contenti finché arrivano i Beaufort e i Selosse. E allora apriti cielo. Da loro in poi, per ragioni – e con approdi stilistici – differenti, la Champagne ha iniziato a partorire vini ben più originali del solito, le cui raffiche di sapore hanno spettinato una generazione di critici e acceso di entusiasmo un gruppo sempre più nutrito di bravi vignaioli.

Tante cose si dicono sul conto di Beaufort, alcune vere e altre maligne, come il fatto che la sua cantina sia sporca; che sia diventato qualcuno solo grazie alla moda del bio; che sia un cacciatore di misteri, un esoterista lontano dalla realtà. Lontano dalla realtà un corno. Gli Champagne di Beaufort sono così impregnati di terra, di materia, di sapore che sarebbe impossibile considerarli meno che reali, e anzi sono così reali da apparire di trasparenza imbarazzante, di verità rabbiosa, di umanità spudorata, proprio come l’ultimo, splendido film della libanese Nadine Labaki, Cafarnao. Che vi raccomando di vedere, vedere, vedere, vedere.

La Cafarnao della Champagne sta in rue de Vaudemanges a Ambonnay, una piccola bottega artigiana ospitata in un edificio anonimo, su una brutta strada periferica di un paese che conta meno di mille abitanti, dove puoi aspettarti poco o nulla, figuriamoci incontrare un mito. E invece eccolo, il mito, in carne e ossa. La reputazione di Jacques è da decenni costruita sulla qualità di Champagne come detto molto originali e spontanei, in grado di imporsi attraverso il tempo e di dialogare in modo virtuoso col dosaggio zuccherino. A tal proposito, vi suggerisco di mettervi sulle tracce del suo sensazionale Champagne Rosé Grand Cru Ambonnay Doux, da uve pinot noir delle vendemmie 1992 e 1998. Degorgiato poco più di un anno fa, fonde senza defaillance Loira, Borgogna e Jura, e ancora zuccheri, acidità e sali minerali, volando ben oltre la sua tipologia.

Attenzione: di Beaufort nella Montagne de Reims ve sono altri tre da conoscere: Herbert a Bouzy, Claude a Trépail, Arnaud a Ambonnay. Ma il marchio per cui batte forte il cuore degli appassionati è solo quello che in etichetta recita André Beaufort, il papà di Jacques, che fondò la maison nel 1933. La proprietà conta due tenute distinte: minuscola quella di Ambonnay, a sud della Montagne de Reims (1,5 ettari vitati), più estesa quella di Polisy, nella Côte des Bar della Senna (Barséquanais), dove il vigneto coltivato ammonta a cinque ettari. Tanto nella Marne quanto nell’Aube prevale di gran lunga il Pinot Noir, benché a Sud la frazione di Chardonnay sia più cospicua che non a Nord.

Fin dagli anni Cinquanta del Novecento, la scalata dell’agricoltura in direzione dell’iperproduttività ha avuto in Champagne (ancora più che altrove) conseguenze tossiche sul piano ambientale. A causa della severa situazione geografica della regione, l’utilizzo di diserbanti e antiparassitari è stato talmente massiccio da ridurre i suoli a una modesta vitalità, surrogata da fertilizzanti di sintesi.

Jacques Beaufort fu tra i primi a mettersi di traverso a quelle che parevano inevitabili consuetudini agronomiche, rappresentando in tal senso un pioniere della viticoltura biologica non solo in Champagne, ma nell’intero Paese. Una volta eredita l’azienda da suo padre, ormai mezzo secolo fa, indirizzò ogni appezzamento verso pratiche naturali: è dal 1971 che le sue piante non vedono pesticidi e diserbanti, mentre la certificazione biologica è attiva dal 1994.

Un antico proverbio cinese dice che quando comincia a tirare il vento del cambiamento non bisogna alzare muri, ma attivare mulini. Per fortuna è andata più o meno così da quelle parti, dove grazie all’esperienza seminale di pochi visionari si è innestata una corrente di pensiero che negli ultimi tre lustri ha fatto registrare un’evoluzione virtuosa delle pratiche agronomiche. Certo, la Champagne rimane ancora oggi tra le più inquinate regioni viticole del pianeta, ma una più nitida sensibilità ambientale da parte di tutti e un numero crescente di produttori bio lascia intendere che la portata del cambiamento sarà probabilmente più concreta nei prossimi anni.

Nel frattempo, Réol, Amaury e Constant hanno affiancato il padre Jacques nell’attività familiare, continuando le pratiche agronomiche di sempre, zappando i suoli per evitarne il compattamento e l’asfissia; utilizzando concimi organici (di origine soprattutto vegetale) per arricchire l’humus dei terreni; trattando le malattie crittogamiche sia con rame e zolfo, sia con miscele di piante e olii essenziali.

Anche in cantina il protocollo è quello suggerito dalla più solida sapienza artigianale: sfecciatura statica dei mosti dopo la pressatura; fermentazione alcolica in botti di legno e in vasche di acciaio senza inoculo di lieviti liofilizzati; malolattica spontanea in primavera; tiraggio estivo con aggiunta di mosto d’uva e lieviti selezionati specifici per la presa di spuma; remuage manuale su pupitre; sboccatura à la volée e dosaggio finale ottenuto con mosto concentrato rettificato.

Ad oggi, si producono grossomodo trentamila bottiglie all’anno, eppure il catalogo aziendale propone una serie impressionante di cuvée diverse nel millesimo, nel colore, nelle caratteristiche varietali, nella data di sboccatura, nell’origine geografica, nel dosaggio zuccherino. In più, dal listino è possibile attingere a vecchie annate conservate in punta e degorgiate recentemente, a prezzi di sicura soddisfazione per chi compra. Infine, va detto che sul piano amministrativo convivono due società (entrambe in mano a Jacques e ai suoi figli): una detiene le uve, l’altra le acquista e si occupa della champagnizzazione e della commercializzazione. Per questa ragione la sigla che troverete sulle bottiglie firmate André Beaufort è quella propria dei négociant-manipulant (N.M.), un bizzarro paradosso per un marchio che rappresenta il modello più radicale ed emblematico del movimento artigiano in Champagne.

I grandi uomini e le grandi donne hanno di solito idee chiare su tutto e distinguono facilmente il bianco dal nero. I bravi degustatori invece devono perdersi in una scala di grigi. Il grigio è quel colore che rimanda all’attesa e allo stare in mezzo, mettendo al centro dei nostri interessi l’osservazione prima ancora della reazione. Grigio è trascorrere giorni sulla soglia dei nostri pensieri a fissare la strada; è galleggiare nell’acqua alta degli eventi; è lasciarsi attraversare dalle onde di tutto. Grigio è mettersi al centro delle cose, valutare caso per caso e raccontare ciò che si vede con una buona quantità di parole. Già, le parole. Il degustatore deve usare tante parole, quelle giuste intendo. Le parole servono a spaccare il capello in quattro, a scavare e a portare in superficie immagini, sensazioni, storie. Ciò che conta è averne fame e tenersele strette, le parole: per noi, per chi ci ascolta e per quando la vita si complica o si fa spoglia. Se si impara ad attraversare le scale di grigio, usando le parole opportune, allora il vino, quando è grande, può diventare una vertigine. Qualcosa che ti prende e ti porta in alto, là dove la natura si intreccia alla cultura, la materia allo spirito, la scienza al mistero, il passato al futuro.

Per quanto mi riguarda, gli Champagne di Jacques Beaufort rappresentano appieno quel volo sensoriale senza paracadute, che muove il bevitore sensibile su corde vibranti, instabili: valutarli con attenzione significa ricevere spesso soddisfazioni incomparabili. Spesso, non sempre, perché l’artigianalità non regala certezze, semmai imprevedibilità.

Mi piace l’unicità, l’autenticità e dunque la preziosità di uno stile che prima ti prende via, dopodiché ti riporta a casa; nel senso che ti fa viaggiare in un paesaggio multiforme dove vedi tutto e senti tutto, prima di farti tornare indietro, tra fredde piogge atlantiche e ardenti focolai domestici.

Mi diverto con le loro espressioni imperfette, le traiettorie dissonanti, gli odori spiazzanti, gli improvvisi alti e bassi di ritmo, le articolazioni gustative incongrue, che a un certo punto trovano pace, cadendo là dove devono cadere e svelando una traccia, un indizio, un’ipotesi di Champagne senza tempo.

 

Gli Champagne André Beaufort sono importati in Italia da Soavino di Luca Ghiotto.

Viale del Commercio 25, 37038 Soave (VR).

Tel: 045 619 0199

www.soavino.com

info@soavino.com

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


LEGGI ANCHE