A Trevi per il Trebbiano Spoletino. Ora bene, ma attenti alla “diaspora stilistica”4 min read

Sono sempre più convinto che noi italiani soffriamo gravemente di una sindrome che è l’opposto di quella di Stendhal.

L’ho scritto pochi giorni fa e lo ripeto adesso dopo aver ammirato le campagne attorno a Trevi, aver passeggiato per il suo borgo, visitato il Complesso Museale di San Francesco e ammirato, tra l’altro, un trittico del XV secolo attribuito al Mazzaforte che mi ha lasciato a bocca aperta e quasi in tachicardia per qualche minuto (un minimo di Sindrome di Sthendal permettetemela). Bellezze del genere meriterebbero un’attenzione planetaria!

Tutto questo in occasione di deGusto Trebbiano&Food Festival, manifestazione incentrata sul vitigno umbro che adesso catalizza l’interesse di molti: il trebbiano spoletino.

Siamo di fronte ad un vitigno a bacca bianca che del trebbiano ha solo la grande capacità produttiva, capacità che fino a pochi anni fa gli permetteva di svilupparsi maritato a piante come aceri e olmi, grazie anche a corde tirate tra gli alberi che consentivano alla vite di ramificare.

Tutto questo portava produzioni adeguate più alla trascorsa mezzadria che non alla produzione di un vino moderno. Una forma sicuramente antica, quasi ancestrale di viticoltura, che anche adesso mantiene qualche esempio nella piana attorno a Spoleto e non solo.

L’uva ha una buccia consistente, un’acidità che si mantiene alta e soprattutto un’aromaticità intensa e particolare (una via di mezzo tra malvasia e kerner) che ha sancito negli ultimi 20 anni il suo successo.

Un successo che non si misura tanto in ettari quanto in passaparola tra appassionati e soprattutto in “passavigneto” tra produttori, nel senso che oramai molti produttori umbri, anche e soprattutto quelli abituati a produrre un vino completamente diverso come il Sagrantino  lo hanno piantato e lo stanno producendo, alcuni per la verità da diversi anni, come Bea e Tabarrini tanto per fare degli esempi. Oramai siamo a più di 40 cantine e a un numero nettamente superiore di etichette.

La manifestazione di Trevi voleva da una parte tracciare una storia, anche sociale, del vitigno e dall’altra far valutare lo stato dell’arte, grazie ad una degustazione di quasi 50 campioni bendati e ad altre interessanti degustazioni a tema.

Una delle degustazioni a tema era guidata dal bravissimo Antonio Boco, che è riuscito a dare valenze nettamente positive ad un qualcosa che, nella degustazione precedente dei 50 campioni, avevo fatto mie  ma con valutazioni di segno opposto.

Antonio ha infatti parlato delle varie chiavi di lettura del Trebbiano Spoletino e con una degustazione di otto buoni vini, ha presentato un quadro coerente e chiaro. Lo stesso quadro, assaggiando precedentemente  i 50 vini bendati,  non l’avevo visto in maniera chiara e ancor meno in modo coerente. Sbaglierò ma non siamo di fronte ad un vitigno con migliaia di ettari piantati e prodotto da centinaia di cantine, bensì ad una piccolissima realtà (non sono riuscito ad avere un dato certo, ma non credo si vada oltre i 200 ettari totali) che fino a pochissimi anni fa era conosciuta ( o se ne parlava senza conoscerla) per un bianco profumato, fresco, di medio corpo,  da bersi giovane.

Nei 50 vini degustati ho trovato le seguenti tipologie.

  1. bianco profumato, fresco, di medio corpo, da bersi giovane
  2. bianco con profumi particolari e intensi, modello sauvignon neozelandese
  3. bianco giovane con breve macerazione delle bucce per estrarre più corpo e meno puntato ai profumi primari.
  4. bianco macerato, più o meno orange, senza profumi primari
  5. bianco passato in legno (spesso coperto dal legno) e pensato per l’invecchiamento
  6. Bianco spumante metodo classico o charmat
  7. Vino dolce

A queste  sette  tipologie vanno poi aggiunte le “interpretazioni aziendali” che dilatano ancora un range in cui si rischia di perdersi.

Per un attimo mi sono messo nei panni dell’importatore cinese ( o americano o tedesco) che si affaccia nel piccolo mondo del Trebbiano Spoletino e cerca di capirci qualcosa. Mi sentirei estremamente disorientato di fronte a questa diaspora di stili, che non mi permette di capire quale strada questo vino voglia percorrere.  Questo a prescindere dall’alta qualità di molti dei vini degustati.

Per questo credo che fare un punto preciso, anche dal punto di vista dei disciplinari, sia fondamentale, altrimenti tra qualche anno questo “polverone stilistico” coprirà ogni via che porta al mercato e allora si assisterà alle cantine più importanti che metteranno davanti il loro brand al vitigno, altri che cominceranno magari ad unirlo ad altre uve più conosciute (vedi grechetto) e altri che non sapranno dove andare.

Non voglio fare l’uccellaccio del malaugurio ma di situazioni simili ne ho viste diverse e se non si tiene la barra dritta DA ADESSO, facendo parlare e interagire tra loro i produttori, il rischio di perdersi per strada per me è molto alto.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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