“Andai a letto senza cena”. Ecco il racconto vincitore del concorso “La cena più bella della tua vita”6 min read

Pubblichiamo con grande piacere il racconto di Matteo Bellotto che ha vinto il nostro concorso “La cena più bella della tua vita”. Nei prossimi sabato i due racconti classificatisi al secondo e al terzo posto.

Questa storia ve la devo raccontare così, come se vi avessi di fronte al bar, senza particolari preamboli perché è accaduta veramente e ogni verità ha un linguaggio proprio. Al bar non puoi mentire, infatti, puoi raccontare balle, che siano credibili, e difenderle fino alla fine, ma non puoi cedere e non puoi mentire. È un po’ come essere su un palcoscenico dove lo spettacolo deve andare avanti nonostante tutto. Faremo finta di essere al bar, mentre leggete, ascoltando me. Poi questa storia diventerà vostra e potrete raccontarla nuovamente come se fosse accaduto a voi o a qualcuno che conoscete bene. Cominciamo…

I fatti che andrò a raccontarvi risalgono ad una serata infrasettimanale, un mercoledì o giovedì non ricordo di preciso, di un giorno di metà febbraio di dieci anni fa. Io lavoravo di sera in un’Osteria con Cucina di un piccolo paese della pedemontana friulana. I luoghi come questi hanno una narrativa propria, che oggi spesso viene edulcorata da certi programmi televisivi o da racconti di blogger a caccia di qualcosa da dire. La verità è dentro questi luoghi, nei paesi, per sei giorni su sette entrano le stesse persone, alle stesse ore, con le stesse richieste, con gli stessi argomenti, con le stesse battute già sentite, capaci di deridere ogni novità proposta e di lamentarsi se un bicchiere di vino costa un euro e venti invece di un euro minacciando di non tornare. Che se ne vadano, penserete, ma le minacce di certi significano trenta bicchieri in meno venduti in un giorno che in un mese fanno male.

Lavoravo in questa Osteria, tutte le sere: il titolare, un amico, aveva grande talento per la cucina. Il paese, come avviene quasi sempre in provincia, non gli avrebbe permesso di alzare la testa, ma solo di abbassarla.

Capitavano, in ogni caso, serate divertenti, anche se tutta l’azione, specie durante la settimana, si svolgeva tra le 18 e le 20 o poco più per poi consegnare il locale al silenzio. Le settimane erano lunghe e a parte qualche eccezione nessuno capitava tra quei vicoli a cena. Il posto era piccolo, venti coperti, una stanza confortevole, ma un vuoto enorme, allo stesso tempo.

Se avete capito la situazione sarete sicuramente in grado di comprendere ciò che capitò quella sera di cui voglio raccontarvi. Era febbraio, come detto, pioveva fortissimo ed il freddo avrebbe scoraggiato anche i più assetati ad uscire. Era una di quelle serate dove solitamente si decide di chiudere in anticipo, per poter dar respiro ai costi e spazio al riposo in attesa di momenti più affollati. Io e il cuoco ci stavamo divertendo a stappare qualche bottiglia raccontandoci storie e perdendoci in chiacchere alticce. Sembrava che tutto sarebbe finito così. Non fu così.

Entrò una ragazza, trafelata, dall’aria triste; sembrava turbata, come se stesse scappando da qualcosa. “Posso sedermi?” chiese al vuoto della sala, ed io risposi subito con un “Dove vuoi!” che uscì dalla mia bocca con un tono scordato, con un volume che cominciavo a non contenere. Il cuoco andò subito in cucina per nascondersi.

La ragazza di sedette nell’ultimo tavolino in fondo alla stanza. Il posto era talmente piccolo che tutti erano visibili dal bancone e lei era l’unica. Non feci in tempo a provare ad avvicinarmi che subito entrò un uomo, sulla quarantina. Nessuno dei due transfughi della pioggia era mai stato visto in Osteria, me li sarei ricordati, ma avevano l’aria di essersi dati appuntamento proprio in un posto dove potevano essere sicuri di non essere riconosciuti.

Mi avvicinai mentre lui, sicuro, prendeva posto al tavolo di lei, che aveva la testa bassa, sull’orlo del pianto. Con una voce decisa lui chiese di portare una bottiglia di vino bianco, della casa. Non feci altro cenno ed obbedii. Portato il vino chiesi se volessero cenare. “Aspettiamo un attimo” disse lui, che in quel tempo non aveva alzato gli occhi da lei, che teneva ancora il capo chino. Indietreggiai e andai in cucina a riferire la situazione. Mi rimisi poi al bancone continuando a pulire e asciugare bicchieri, ma con l’orecchio teso: “fatti gli affari tuoi facendoti gli affari degli altri” questa era la regola da bar che mi era stata insegnata il primo giorno.

Parlavano sottovoce con qualche accenno di volume soltanto per rimarcare dei punti. Stavano litigando, ovvio, uno di quei litigi da resa dei conti, magari con un tradimento di mezzo o qualcosa di grave. Il loro volume si alzava ad ogni sorso di bianco, che si spingeva nelle vene galoppando sulla lingua. Sembravano sull’orlo di dire basta, a qualsiasi cosa fosse.

Non so come mai, perché non mi è mai capitato, ma decisi di prendere l’iniziativa; volevo tenerli lì con me, in qualche modo, volevo poterli mettere a loro agio. Preparai un tagliere di salumi e formaggi, freschi, di zona, perché sapevo che mangiando avrebbero fatto parlare meno gli stomaci e più le teste. All’inizio si stupirono della mia offerta ed avendo finito anche il vino (lo avevano trangugiato quel Tocai da conversazione) mi offrii di portar loro anche quello. “Se volete vi preparo qualcosa di caldo” continuai: acconsentirono senza distogliersi gli occhi di dosso.

Andai in cucina a cercare di svegliare il cuoco sentendomi insignito della missione di dover col cibo e col vino parlare con loro. Ci impegnammo: ci fu una splendida carbonara, di cui il cuoco era maestro, che servimmo con un Picolit, vino dolce certo, ma mai dolce del tutto, come il Friuli. La sorpresa di questo abbinamento, azzardato si, ma straniante e profondo, riportò i due su temi meno duri. Iniziammo a scorgere i primi sorrisi, quelle risate che non si riescono a trattenere nonostante le arrabbiature. Portammo poi il salame all’aceto, con uno Refosco evoluto per bloccare tutto il sapore in bocca; quell’abbinamento era come un bacio improvviso. Continuarono a chiaccherare ancora un po’, sorridenti. Pagarono e uscirono dentro la pioggia, abbracciandosi per proteggersi. Pensavo di non rivederli più.

Molti anni dopo, qualche tempo fa, un caro amico mi invitò ad un pranzo da lui, per festeggiare il compleanno di un amico comune. Alcuni invitati, molti dei quali non potevo conoscere, e la promessa di una degustazione con abbinamenti cibo vino per il divertimento dei pochi invitati, tutti appassionati.

Che ci crediate o meno, il cuoco dei piatti che abbiamo mangiato era lui, il signore che avevo servito di cui sopra, mentre la sommelier che aveva pensato agli abbinamenti era lei, la signorina piangente di cui sopra. Uno degli abbinamenti fu quello della carbonara e del Picolit.

Ci conoscemmo quella sera e riconoscemmo reciprocamente ricordando quella serata piovosa, della quale negli anni mi ero immaginato tutto. Si erano incontrati, quella sera, per lasciarsi definitivamente dopo un litigio, ma grazie a quella cena improvvisata si erano decisi a immaginare la loro attività uno in cucina e l’altra al servizio, fatto comunque a domicilio. Continuano a farlo ora, a Londra, e da un paio d’anni si sono sposati.

La più bella cena che ricordo, dunque, risale a quella volta in cui andai a letto senza cena, con la fame degli altri e la testa piena di ricordi che mi sarei bevuto via.

 

Matteo Bellotto
Matteo Bellotto
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