E se l’Orvieto invecchiasse bene?4 min read

Devo ammettere che qualche dubbio ce l’avevo, pur se il territorio e la città mi attiravano e mi attirano da tempo semplicemente perché sono di una bellezza disarmante. Però i vini non è che siano molto considerati a livello qualitativo.

Alla fine la spinta decisiva per mettere in programma l’assaggio me l’ha dato il ricordo di una lasagna di mazzancolle, preparata per 700 persone da Vissani (ed il suo staff ovviamente)  e gustata  in una caserma di Orvieto durante il Congresso Slow Food del 1997. In abbinamento a quel piatto, il cui ricordo porto gelosamente con me, bevvi  ottimi Orvieto e in memoria di quei bianchi ho deciso di “rischiare”.

Da questo punto in poi “Grazie ai giovani!” Al giovane Bernardo Barberani, ex presidente del consorzio con cui abbiamo avuto il primo contatto  e al giovane Enzo Barbi, neopresidente del consorzio che ci ha organizzato l’assaggio.  

Già vi vedo storcere la bocca, oppure ridacchiare neanche tanto sotto i baffi mentre pensate “Ma il Macchi è proprio fuso! Anche gli Orvieto va ad assaggiare…”.

Meglio essere fusi che avere la puzza sotto al naso e meno male ho preso questo “rischio”. Se non l’avessi fatto mi sarei perso alcuni tra i migliori vini dolci d’Italia, una serie di bianchi piacevoli e freschi, per nulla semplici e scontati. Ma soprattutto non sarei divenuto uno dei tenutari del grande segreto, custodito gelosamente dai produttori stessi forse per paura di essere pubblicamente spernacchiati…l’ORVIETO INVECCHIA CHE E’ UNA BELLEZZA!

Non solo perché in alcune cantine ho assaggiato le penultime annate in commercio che erano molto più ampie e piacevoli delle attuali, non solo perché ormai mi è chiaro che i buoni Orvieto sono meglio dopo almeno un anno, ma perché dopo aver assaggiato un 2000 ed un 1998 di Palazzone ancora profondi e freschi ed un 1992 di Decugnano dei Barbi assolutamente incredibile non si può far finta di niente. Per cui aspettatevi prima o poi un articolo relativo ad una verticale di Orvieto che vi toglierà definitivamente quel sorrisetto dalle labbra.

Certo che i sorrisi rischiano di trasformarsi in pianto se guardiamo alcuni dati: 15 milioni di bottiglie prodotte con però un imbottigliamento fuori zona che copre il 60% del totale.  Vini praticamente presenti solo in GDO, le buone aziende che puntano sul loro marchio per piazzare il nome Orvieto (mentre dovrebbe essere il contrario) mentre quelle meno note  puntano sul prezzo. Sul prezzo ci puntano naturalmente anche gli imbottigliatori fuori zona e le locali cantine sociali,  quindi il ventre molle di questa denominazione impedisce alla qualità di spiccare il volo.

 Perché la qualità nei pochi campioni assaggiati (ai grandi marchi fuori zona cosa frega di far assaggiare i loro vini) è chiara e di buon livello. Un dato che li unisce è una impensabile freschezza, anche in annate caldissime come il 2012 o il 2011. Magari i profumi tendono in qualche caso ad “appoggiarsi” ad uve internazionali, ma di fronte a vitigni non certo ammalianti come il trebbiano, lievi nuances di sauvignon e compagnia cantante non sono certo il peggiore dei mali (con un disciplinare che ne permette fino al 40%). In bocca poi il Grechetto si fa sentire, portando in qualche caso ad una quasi palpabile tannicità ed a concrete lunghezze.

Come detto pochi vini assaggiati, nemmeno 20. Potevamo allargare la degustazione ai molti Umbria IGT ma non l’abbiamo fatto perché volevamo puntare i riflettori proprio su questa realtà che è facile criticare ma, se provi a conoscerla, presenta non pochi lati positivi.

Il giorno in cui il consorzio avrà due lire per promuovere il meglio di questo territorio quello che dico adesso potrà essere toccato con mano. Non credo purtroppo avverrà presto anche se lo spero, perché la realtà deve fare i conti con un 60% fuori zona che certo non ha interesse a promuovere il territorio e con una presenza imponente e forse ingombrante delle cantine sociali.  

In definitiva quest’assaggio della “crème de la crème” dell’Orvieto è andato aldilà delle oscure previsioni iniziali e anche se non siamo di fronte ad un nuovo Pozzo di San Patrizio enoico posso tranquillamente dire che gli Orvieto assaggiati da noi  tengono tranquillamente testa a tante denominazioni con un blasone molto meno sfilacciato.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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