Assaggi Chianti Classico: ma dove va il Sangiovese chiantigiano?5 min read

I nostri assaggi di Chianti Classico, annata e riserva si sono svolti per l’ultima volta presso la sede di Sant’Andrea in Percussina del Consorzio Gallo Nero. Non perché non assaggeremo più questi vini (Figuriamoci!) ma perché il Consorzio stava spostando armi e bagagli nella nuova sede, molto più funzionale ma sicuramente meno panoramica.

Erano di scena il 2009 per l’annata e il 2008 per la riserva, anche se oramai da anni molti entrano in commercio più tardi (che strano, succede praticamente da quando il disciplinare permette di entrare in commercio alcuni mesi prima…) e quindi con aggiunte non insignificanti, in entrambi i vini, almeno delle annate precedenti.

2009 e 2008: annate non certo facili ed anche i vini non possiamo dire che abbiano brillato di luce propria. Mediamente hanno svolto in maniera sufficiente o più che sufficiente il compito. In particolare i 2009 mostrano in diversi casi una mancanza di concentrazione e non sempre la freschezza e l’equilibrio riescono a farla dimenticare. Le Riserve 2008 sembrano essere ricascate nel vecchio discorso della tipologia “né carne né pesce” ma forse è solo l’annata che non ha permesso grandi prestazioni. Sbrigato il compitino di breve (brevissima!) presentazione delle due vendemmie passo subito a cercare di “partorire la cosa” che, da quando ho assaggiato questi vini mi gira in testa.

Il tutto nasce da una certa insoddisfazione, latente e non, che ha caratterizzato i nostri assaggi. Un’insoddisfazione non tanto nei vini in generale che, come detto,  non hanno né brillato né demeritato particolarmente, ma sul ruolo del Sangiovese, che in questa terra è il Vitigno con la V maiuscola.

Prendiamola un po’ alla larga: mi sono messo a spulciare le schede che le aziende ci hanno inviato assieme ai vini; in particolare le dichiarazioni sulle uve utilizzate. Ho così diviso le cantine in due grandi famiglie, quelle che usano vitigni internazionali nei loro Chianti Classico (riserve comprese) e quelle che non lo fanno, lavorando solo Sangiovese oppure utilizzando altri vitigni autoctoni come Canaiolo e Colorino.

Questa divisione in due famiglie ha evidenziato (in soldoni) che praticamente il territorio è equamente diviso tra chi usa ( ripeto, sto parlando di vini DOCG e quindi non di Supertuscan) o non usa Merlot, Cabernet e compagnia estera. Quest’uso, quando presente,  è (almeno sulla carta) ben poche volte portato alla massima percentuale ammessa dal disciplinare, il 20%. Dove sono usati quasi sempre  i vitigni internazionali non superano  la soglia del 10%.

Ritornando ad una vecchia polemica questo dato può essere visto come il bicchiere pieno a metà d’acqua. I tradizionalisti potranno affermare che il 50% di aziende è troppo in una terra caratterizzata dal Sangiovese , gli altri avranno motivo di ritenere che, alla fine dei salmi, Cabernet e compagnia (almeno in Chianti Classico e nei Chianti Classico) non sono poi così fondamentali.  Non volendo però ritornare su una discussione vecchia e stantia vado oltre, cercando di individuare il nocciolo del problema.

Praticamente la stragrande maggioranza dei Chianti Classico (dopo anni di discussioni tra puristi ed innovatori) viene fatta almeno dal 90% di Sangiovese;  quindi, se i vini non ci hanno soddisfatto molto la “colpa” va data a questo vitigno. E’ inutile parlare di altre uve, di perdita di identità, etc. Il problema su cui concentrarsi è il livello attuale del Sangiovese chiantigiano.
Ed il problema non è da poco: lo scorso anno, tra i Chianti Classico base, avevamo segnalato la presenza di un 10% di vini eliminati dagli assaggi per puzze e problemi vari (vedi); quest’anno sia tra le annate che tra le riserve un abbondante 5% di campioni ha subito la stessa sorte.

Questo dato, in un territorio da sempre all’avanguardia enologica e dove il numero delle aziende non è che aumenti esponenzialmente, dovrebbe far accendere vari campanelli d’allarme. Se poi ci aggiungiamo che, pur con questa strapresenza del Sangiovese  i profumi del vitigno in diversi casi latitano o escono con titubanza, ci sono tutte le caratteristiche per chiedere “Cosa succede al Sangiovese in Chianti Classico?”

Non ho risposte da dare, posso solo ipotizzare uno dei motivi principali. Forse non si sbaglia di molto se si ipotizza una certa “stasi enologica da crisi”. In altre parole: i produttori chiantigiani hanno costi notevoli a cui far fronte. In un momento di crisi si cerca di tagliare dove è più facile e dove si può, cioè nel personale e nei lavori in vigna ed in cantina. Tutto questo, avendo a che fare con un vitigno difficile, può portare da una parte ad una “stasi qualitativa” e dall’altra purtroppo anche ad errori difficilmente rimediabili.

Attenzione, la mia è solo un’ipotesi. Non ho dati alla mano che la possano confermare, solo delle sensazioni che magari  le mie ampie orecchie hanno captano meglio di altri. Se dalle orecchie si passa al naso ed al palato la conferma che il Sangiovese è un vitigno che ha bisogno di grandi cure è spesso palese. Non per niente mi tocca affermare, quasi obtorto collo, che abbastanza spesso, quel 5-10% di uve internazionali aiutano molto, sia nei profumi che in bocca. Per fortuna non lo fanno  con l’invadenza di 10-15 anni fa ma con “garbo chiantigiano”, da vitigni che oramai hanno trovato una seconda casa, con aromi e caratteristiche molto più amalgamabili al Sangiovese.

E arrivo così alla tirata finale che, da amante delle uve autoctone mi costa moltissimo. Ma è mai possibile che per avere dei Chianti Classico piacevoli e profumati, in molti (troppi) casi ci si debba appoggiare alle cosiddette uve internazionali? E’ proprio tanto difficile proporre Chianti Classico dove il Canaiolo non sia solo un’uva in più ma apporti i profumi che ha sempre avuto ? E’ così difficile estrarre dai Sangiovese attuali quei profumi e quelle caratteristiche che lo  hanno reso famoso nel mondo e soprattutto nelle case dei chiantigiani?

Il dado è tratto ed il dibattito e lanciato: voglio precisare che, per fortuna, vi sono belli esempi contrari dove il sangiovese spicca e non poco, ma l’andamento generale non mi convince per niente ed aspetto lumi in tal senso.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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