“Sembrano i vigneti dei sette nani!” La battuta mi scappa di bocca mentre in auto con Nicola Bovard, tecnico della Cave de Mont Blanc e nuovo Presidente del Consorzio, vedo il primo vigneto di priè blanc allevato a oltre 1000 metri con il classico sistema locale che prevede una specie “pergola dimezzata” cioè un allevamento a pergola, però “alto” da terra circa un metro. Questa forma di allevamento che, come potete capire dalla foto qua sotto, è di difficilissima gestione, è dovuta a vari fattori che vi spiegherò più avanti perché la Valle d’Aosta viticola è meglio presentarla dal “basso verso l’alto”.

Valle d’Aosta: vini di montagna con piogge da Nord Africa
Prima ancora un minino di inquadramento della regione italiana che produce meno vino. I dati Istat del 2023 parlano di 19.000 ettolitri: per farvi capire la penultima regione in questa graduatoria è la Liguria che ha una produzione quattro volte superiore mentre il Veneto, primo produttore italiano, arriva quasi a 11 milioni di ettolitri.
Siamo quindi in una specie di boutique del vino italiano, con caratteristiche molto particolari. Prima di tutto dal punto di vista viticolo la Valle d’Aosta è divisa in tre parti. Bassa, Media, e Alta Valle. La Bassa Valle (300-450 metri) arriva quasi a Chambave e ha come zona viticola principale Donnas, la media valle (450-900) parte poco dopo Arnaz arriva oltre Aosta e rappresenta la parte più cospicua della viticoltura valligiana, l’Alta Valle( 900-1200) mette in prima fila la zona di Morgex e La Salle, ai piedi del Monte Bianco.

Una caratteristica che unisce le tre zone è quella che meno ti aspetti da un territorio di montagna: in Valle d’Aosta, in particolare nelle zone viticole, piove pochissimo! I produttori parlano di circa 500 millimetri annui (dati regionali: Aosta 600 millimetri medi dal 2001 al 2020): meno di Siviglia, tanto per fare un esempio e negli anni caldi come 2022 e 2023 hanno misurato solo 300 millimetri, che ci porta alla piovosità media di Marrakech.
Questo perché la Valle d’Aosta è contornata da gruppi montuosi su cui le perturbazioni arrivano, si infrangono, scaricano ma poi spesso vengono spinte, da cime che superano anche i 4000 metri, altrove e non all’interno della Valle. Quindi ci troviamo tra i 300 e i 1200 metri con spesso “non piogge” degne del Nord Africa, umidità scarsissima e questo porta al vantaggio di fare pochi trattamenti (anche 4/5 soltanto) durante l’anno. Altra cosa importante: le viti affondano le radici in un terreno morenico composto soprattutto da sabbia e ciottoli, quindi fondamentalmente povero.
Altezza sul livello del mare, scarsa piovosità e terreni poveri portano a vini che non solo puntano più sull’eleganza che sulla potenza ma portano avanti aromaticità fini sia per i bianchi che per i rossi. Detto questo iniziamo il viaggio tra questi vini premettendo che non parleremo qui di singoli prodotti perché il tema verrà trattato quando pubblicheremo i risultati degli assaggi che abbiamo fatto al consorzio di tutela. Questo articolo vuole solo introdurvi, incuriosendovi, a questa “boutique enoica”. Punteggi, nomi, cognomi, consigli per gli acquisti derivanti dall’aver degustato quasi 100 vini valdostani arriveranno più avanti e, fidatevi, ce ne saranno di imperdibili.
Vigneti estremi, panorami unici, vini che vale la pena conoscere
Bassa Valle: viticoltura eroica con un vitigno particolare

La prima DOC che si incontra entrando in Valle è Donnas ma pare di essere rimasti due chilometri indietro, in Piemonte, a Carema, visto che qui si parla della stessa uva, il picotendro e della stessa forma di allevamento, una pergola che è un artistico incrocio tra architettura e viticoltura. (foto
Il Picotendro è in realtà nebbiolo, che qui ha trovato modi di esprimersi molto più eleganti. La Cave di Donnas, principale cantina di un territorio con nemmeno 50 ettari di vigneti, è una cooperativa dimensionata alla Valle d’Aosta, cioè piccolissima: 50 soci, 19 ettari totali per circa 80.000 bottiglie. I vigneti partono attorno 300 metri e arrivano sui 500, ma queste vigne trovano sempre meno persone disposte a fare tra 700 e 900 ore annue per portare l’uva alla cantina: non per niente i soci erano 200 alla fondazione nel 1971 ma da allora si è assistito ad un abbandono progressivo delle piccole parcelle attaccate alla montagna.

La bellezza viticola di Donnas è tutta racchiusa in queste vigne che sembrano sfidare la montagna e sicuramente sfidano l’uomo chiedendogli tanto, tanto lavoro e spesso una remunerazione minima visto che i prezzi dei vini della cave di Donnas vanno dai 10-12 ai 20-25 Euro. Il problema dell’abbandono delle vigne è uno di quelli più sentiti nelle cooperative valdostane e lo ritroveremo spesso nel nostro viaggio.
Media Valle, punto centrale e cruciale del vino valdostano
Nella media Valle si cambia registro, vitigni e forme di allevamento. Il picotendro rimane a Donnas, qui troviamo sia uve internazionali che vitigni autoctoni valdostani. Da una parte si capisce l’attaccamento alla Francia con pinot nero, syrah, gamay, chardonnay, pinot grigio e recentemente c’è stata una “spinta” verso est con l’arrivo del müller thurgau e del gewürztraminer. Il moscato, considerato “quasi autoctono” è l’anello di congiunzione con le uve classiche della Valle, cioè petit arvine, fumin, petit rouge, cornalin e altre chicche come il vuillermin. Quest’abbondanza di uve (e ce ne sarebbero altre) i produttori valdostani vogliono presentarlo il più possibile al completo, arrivando così a proporre da dieci a venti etichette e più per cantina. Se a Donnas si parla di viticoltura estrema qui in Media Valle si va da estrema a “solo” difficile. Le forme di allevamento diventano così quelle classiche e ritroviamo vigneti a filari.

Il primo approccio con la Media Valle l’abbiamo alla Crotta de Vigneron: cooperativa con “ben” 25 ettari suddivisi tra 50 soci che in passato erano 120. Anche qui l’abbandono della vigna si sente pur respirando un’aria di grande modernità e fiducia. Iniziamo gli assaggi da un pinot grigio (qui chiamato anche nus malvoisie) e da un moscato e subito dopo incontriamo il vitigno bianco che qui e in ogni altra degustazione ha rappresentato una vera sorpresa e sicuramente è il punto di forza della viticoltura valligiana, il petit arvine. E’ un uva tardiva con buccia spessa e porta a vini che in bocca si distinguono per freschezza ma soprattutto per grintosa dinamicità. Certe volte sembrano quasi tannici e con un bicchiere nero potrebbero essere scambiati per dei rossi: personalmente hanno ricordato i Greco di Tufo e la loro piena e ruvida potenza. Anche Nicolas Ottin, figlio del fondatore di questa cantina punto fermo nel panorama regionale, è d’accordo con noi sulla somiglianza con il Greco di Tufo e assaggiando i suoi Petit Arvine dalla botte ci convinciamo ancor di più delle possibilità di questo vitigno, che regge bene l’invecchiamento in legno e mostra tutta la sapidità che il terreno della Valle può dare. Sapidità che si ritrova anche negli altri vini, sia bianchi che rossi.

Proprio sul fronte dei rossi abbiamo capito, sia alla Crotta de Vegneron che in altre cantine visitate, De Vrille, Grosjean a altre, come il cambiamento climatico abbia portato giovamento a uve come il petit rouge e il Fumin, vitigni autoctoni che dovrebbero essere più conosciuti fuori regione e che compongono la principale Doc in rosso della Valle, il Torrette. Ci piace anche citare la sorpresa Cornalin e il quasi sconosciuto Vuillermin, anche questi aiutati sia dal cambio climatico che da una viticoltura molto più attenta che in passato.
Del passato ci ha parlato Vincent Grosjean, una delle memorie storiche della valle, passando dai momenti pionieristici al punto in cui la provincia di Aosta decise di puntare anche sul vino promuovendo la viticoltura attraverso soprattutto le cantine sociali. Si parla degli anni ’80 del secolo scorso, vero punto di svolta per questa terra. Ce lo conferma anche André Gerbore, presidente della più grande cooperativa valligiana, la Cave des Onze Communes (11 comuni attorno ad Aosta), fondata nel 1984 ma attiva dal 1990.

Questa cooperativa è l’unica che ha aumentato il numero di soci anche e soprattutto perché il territorio degli “onze communes” pur essendo spesso impervio, permette una viticoltura meno estrema, in qualche caso addirittura parzialmente meccanizzabile, anche se la vendemmia e buona parte delle operazioni devono essere fatte a mano. A proposito, una cosa che ci ha colpito è che la stragrande maggioranze dei vigneti posti anche in forti pendenze sono stati piantati a rittochino. Ci spiegano che sia le scarse piogge che la composizione del terreno, molto drenante, permette di piantare così senza grossi problemi di dilavamento e scivolamento del terreno.
Altra cosa importante: in media valle, specie attorno ad Aosta, dove vi sono spazi più ampi per la viticoltura, la vigne si trovano sia sulla sinistra che sulla destra orografica della Dora Baltea, ma comunque la stragrande maggioranza dei vigneti in Valle si trova a sinistra (che poi è la destra per chi sale verso Aosta). La conformazione della regione, che va da est a ovest, permette ai vigneti a sinistra della Dora di prendere il sole praticamente tutto il giorno mentre quelli a destra, posti però sempre dove la Valle è più larga, hanno garantito un irraggiamento comunque ottimale. Se il sole c’è l’acqua manca e quindi la stragrande maggioranza dei vigneti hanno l’irrigazione a goccia, con acqua che arriva dalle montagne e viene raccolta in piccoli laghetti.

Non si poteva venire in Valle d’Aosta senza passare da Le Cretes, la cantina che ha fatto conoscere il vino valdostano fuori regione. Qui troviamo conferma della grande sapidità dei vini valligiani, ma anche del fatto che l’uso del legno, quando c’è, sia a Le Cretes che in altre aziende, non è mai esagerato o ridondante e soprattutto non copre le caratteristiche dei vini.
L’Alta Valle: piccolo regno della “viticoltura contorsionistica di montagna”
Vini e vitigni che nell’Alta valle diventano un solo vitigno ma con varie declinazioni. Il priè planc è infatti l’uva principe del Blanc de Morgex e de La Salle ma qui più che del vino bisogna parlare di viticoltura. In Alta Valle la vigna si trova tra i 1000 e i 1300 metri, tutta sulla sinistra orografica della Dora Baltea (a destra, ci dicono, non crescono nemmeno le patate) e da sempre è stata scelta una forma di allevamento che permettesse alle uve di essere ben coperte e nello stesso tempo di poter usufruire del calore raccolto durante il giorno dal terreno.

Nasce così quella che potrei definire “pergola nana”, cioè una pergola che sembra quella di Donnas ma alta al massimo un metro da terra. Potete immaginare quanto costi, in termini di manodopera, operare in questa forma di allevamento, dove è difficile lavorare stando in piedi e quasi impossibile entrando da sotto. A proposito di sotto, girando per le vigne si vedono spazi dove ci sono soltanto pietre: questo perché in passato tutte le pietre che cadevano dalla montagna (oggi ci sono molte reti di protezione) venivano raccolte in estate, messe assieme fungendo così da catalizzatori di calore, incamerato durante il giorno e disperso nella notte in vigna. Come potete capire siamo di fronte ad una viticoltura che va quasi oltre l’estremo e porta a vini bianchi fini, eleganti, non molto strutturati ma sicuramente gradevoli,che per noi si esprimono al meglio nei metodo classico, che infatti sono il fiore all’occhiello della Cave de Mont Blanc, altra microscopica cooperativa con 18 ettari vitati su una denominazione che in tutto non arriva a 30.

Un mondo complesso: non solo viticoltura estrema ma “comunicazione estrema”
Nei nostri tre giorni in Valle abbiamo più volte chiesto ai produttori quali siano i loro mercati: il primo è naturalmente la Valle d’Aosta stessa, sia tramite ristoranti e enoteche che in vendita diretta, il resto è sparso per l’Italia e nel mondo. Parlando parlando abbiamo capito però che una promozione importante del vino valdostano verso l’esterno è difficilissima se non impossibile soprattutto per due fattori. Il primo è la Regione Autonoma Valle d’Aosta che, al contrario di situazioni simili (Vedi Alto Adige), non investe abbastanza nella promozione dei suoi vini, il secondo è la microscopica dimensione di molte aziende (molte producono da 1000 a 4/5000 bottiglie) che da un lato gli impedisce di avere margini per la promozione e dall’altro porta a puntare, grazie anche all’agriturismo, sul vendere tutto il prodotto in casa propria.
Così alla fine le cantine che hanno interesse a farsi conoscere e a far conoscere il vino valdostano fuori dalla Valle si contano sulle dita di due mani. Il Consorzio è nato proprio per cercare di ovviare a questa situazione estrema, e pur avendo ottenuto l’Erga Omnes, ha a disposizione fondi risicati perché alla fine dei salmi si parla di 1.5/1.8 milioni di bottiglie a DOC. Quindi la comunicazione viene fatta come tanta viticoltura locale, con passione, tanto lavoro di chi ci si dedica, enorme dispendio di energie e di tempo. I risultati si cominciano a vedere ma occorrerebbe un balzo in avanti che però ha bisogno di maggiori fondi per nascere. Il solo fatto che non solo Winesurf ma altre guide riescano ad essere ospitate dal Consorzio per gli assaggi è già un fatto nettamente positivo, impensabile solo tre anni fa.
Quindi “la comunicazione estrema” del giovane Consorzio sta facendo passi avanti ma avrà bisogno di tempo e di fondi per far conoscere una realtà che ha tutte le carte in regola per rappresentare la boutique del vino italiano di qualità.
Nella foto di copertina il Castello di Aymavilles, dove si trova la sede del Consorzio.