Tutto culo e cucina. Gli italiani a tavola con Dickie15 min read

Babbo Natale ci ha già portato il regalo, sotto forma di una stupenda recensione-intervista all’autore che Beppe Lo Russo, grande gastronomo, fine letterato nonchè abilissima penna ci ha inviato. Noi ce la siamo goduta ed adesso ve la proponiamo.

 

John Dickie è proprio come vi immaginereste un giovane studioso britannico in giro per l’Italia in un fine novembre. Una testa arruffata, con un’aria stropicciata d’innocente disordine nel vestire: ai piedi mocassini scamosciati, ornati di un vezzo di metallo dorato, i calzini celesti come le facciate di certe case al mare, la giacchetta verde palude troppo leggera per la stagione, e i jeans. Parla un italiano corretto, con quelle aperture vocaliche prolungate che suonano come in bocca ad un sardo bene educato. Ha 44 anni, ma ne dimostra dieci di meno.
Il 24 novembre l’ho atteso nella libreria Laterza di Bari per la presentazione del suo libro Con Gusto. Storia degli italiani a tavola, edito dalla casa barese, che di lui ha pubblicato anche una voluminosa inchiesta sulla mafia (Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana), un best seller, come recita la bandella di copertina, “che ha appassionato il pubblico” ed ora è anche in edizione economica. Ho avuto tempo solo per fargli poche domande, ma in compenso ne ho speso parecchio, tutto quello che serviva, nel leggere da cima a fondo il suo libro per poi, mosso da un senso di trattenuta indignazione, scriverne.
Le sue scarne note biografiche rubate in rete lo dicono storico e giornalista, copywriter per la pubblicità e attivo nelle ricerche di mercato per alcune fra le maggiori aziende internazionali, infine, lettore senior d’italiano all’University College londinese. Ma forse le notizie vanno aggiornate.
Provo a chiedergli in quale di queste diverse figure si riconosce e
alla parola copy subito s’impunta: No, no, sono uno studioso, sono uno studioso, chiarisce, insegno cultura e lingua italiana [è ora professore associato di studi italiani], questo è sempre stato il mio mestiere. Ma si giustifica: Sì, ho lavorato ogni tanto come copy e nelle ricerche di mercato, perché Londra è carissima e lo stipendio di uno studioso, specie se giovane… bisogna… ho avuto bisogno di fare qualche lavoro qua e là.
Sempre per Laterza lei ha pubblicato un’inchiesta sulla mafia, che ha avuto ottime critiche e un buon successo di pubblico. Come mai questo interesse per l’Italia?
Mi sono laureato in lingue ad Oxford, ho fatto francese e italiano e col tempo sono diventato sempre più storico e sempre meno studioso della letteratura. La mia tesi di laurea aveva un capitolo che trattava della nascita  dell’idea di Mezzogiorno come stereotipo, luogo comune del discorso politico antropologico nell’Italia liberale…Ho passato 25 anni a studiare l’Italia.
Dunque, tutte le sue vacanze qui in Italia? Scherzo.
La prima volta è stato fra l’84 e l’85 a Torino. Frequento l’Italia da vent’anni. Ci ho vissuto anche 4-5 anni, in vari periodi.
E come è passato dalla mafia alla cucina?
Era un modo per mettere insieme un percorso autobiografico da studioso. Vengo da una cultura gastronomica povera. Prima di andare all’università non avevo mai assaggiato l’olio d’oliva o l’aceto di vino. Dunque tutti questi anni di frequentazione sono stati anche una lunga educazione al gusto.
La cucina italiana va sempre più di moda, lei afferma, è un fenomeno in crescita continua.
Oltre all’olio d’oliva, naturalmente, da noi sono sbarcati i pomodori secchi e adesso c’è la mozzarella di bufala nei supermercati. Ma il cibo non è solo quello, il cibo è una cultura, è un vero mondo e quel mondo cosa ci dice sull’Italia?
Già. Che cosa ci dice?
La cucina italiana è assolutamente sconosciuta in Gran Bretagna, continua lui, siamo come eravamo con la mafia, cioè con degli stereotipi e… s’interrompe. Non so se conosce Jamie Oliver, da noi è una star televisiva della gastronomia. Questo è uno che ha venduto 15 milioni di libri. È un fenomeno! sottolinea con forza, con un‘influenza anche sulla politica del governo. È a lui che si deve una riforma delle mense scolastiche, ed è lui il missionario della cucina italiana in Gran Bretagna. Soltanto che non parla una parola d’italiano. Lui nei suoi programmi presenta questa Italia tutte mamme, nonne, preti…Ho scritto su di lui su Slow, la rivista di Slow food.
Vengo al libro, e gli contesto che, scorrendo l’indice dei capitoli, nella sua storia manca il periodo cruciale per la nascita e la formazione della nostra cucina, quello che va dalla pubblicazione del manuale dell’Artusi allo scoppio del primo conflitto mondiale.
Il problema è che mancano le fonti, dice. È uno dei motivi per cui ho scelto di focalizzare la mia storia su una città alla volta, è proprio per entrare nelle fonti, farle parlare, entrare nel mondo politico sociale, raccontare i personaggi, la storia. Ho voluto raccontare la storia d’Italia attraverso la storia della cucina.
E la storia che racconta è quella tesa a dimostrare che la cucina italiana, nonostante la dialettica con la campagna, è una cucina prettamente urbana, che nasce nelle città.
Una tesi, osservo, che le nostre due firme più note del settore, Massimo Montanari e Alberto Capatti, hanno più volte ribadito. Del resto i loro nomi sono in cima alla sua bibliografia.
Certo, ammette, e di questo sono anche fiero. Ho cercato di connettere quello che c’è di meglio della storiografia italiana in materia, ho fatto un lavoro di sintesi, divulgativo, risponde pronto. Dobbiamo interrompere la chiacchiera perché lo chiamano per la presentazione. Leggerò il suo libro gli dico, anzi mi sono ripromesso anche di raccontarlo per filo e per segno, con la speranza di risparmiare ad altri di farlo.
Lo ammetto, sono fra quelli che dall’ultimo libro che aprono s’aspettano una scoperta, un’occasione d’apprendimento o almeno di perfezionamento del già noto. Studente sempre, la prima cosa che faccio è andare dritto alla bibliografia, alle fonti. Nel libro di Dickie le fonti occupano ben 25 pagine su 396 di testo. Le scorro per capire quanta mai scienza e di quanti autori abbia piegato all’opera lo studioso Dickie e, dopo il dovuto omaggio ai padri: Camporesi, Capatti, Faccioli, Meldini e Montanari, noto che si passa da eleganti edizioni Ricciardi (Eugenio Garin, Prosatori latini del Quattrocento, Gianfranco Contini, Poeti del Duecento) a quelle di ricettari popular come La Cucina piemontese di Molinari Pradelli o In cucina con amore della Sofia Scicolone Loren; da chicche di articoli scovati in periodici degli anni Trenta ad una lunga serie di dizionari, non dico l’etimologico del Cortellazzo-Zolli, ma quelli più specialistici del dialetto napoletano di Ferdinando Galiani o napoletano-toscano del purista Basilio Puoti. In mezzo di tutto: classici della cucina, naturalmente, ma poi storie della radio e della televisione italiana, storie economiche, comunicati stampa, citazioni di film, comunicazioni personali all’autore, segnalazioni di siti web… In breve, l’impressione è che l’indagine di Dickie, come si dice a 360°, sia almeno pari alla sua presunzione di voler trattare il tema in modo esaustivo sotto ogni aspetto: storico, sociologico, linguistico, letterario, cronachistico, di costume e oltre. Perché sia davvero completa, a questa bibliografia mancano solo le note della spesa del loro autore; quelle teorizzate dal Dossi (per chi sa di Carlo Pisani Dossi e della Linea lombarda).
Che dite allora, questo fa una buona impressione? Arrivare ad infilare tra le fonti un vocabolario settecentesco veneziano e padovano, aperto giusto una volta per attestare la presenza di un lemma, genera il sospetto che l’autore voglia apparire a tutti costi diligente come uno studente alla sua tesi di laurea; quando in bibliografia si facevano entrare anche la guida Monaci e gli elenchi del telefono di Roma e Milano. In più, come si dice proverbialmente – ci sono anche dizionari di proverbi italiani, sì – troppo e bene vanno male d’accordo. In ultimo, mi permetto un appunto sulla non uniformità nel citare i riferimenti bibliografici, per cui, se per un’opera recente di Montanari e Capatti si segnala mettendo in esponente all’anno di pubblicazione l’edizione consultata, a moltissimi testi antichi o otto-novecenteschi non è riservata identica attenzione. Ed essendo questa, a dire dello studioso, opera di divulgazione destinata a un pubblico più vasto di quello degli specialisti della materia, la difformità potrebbe ingenerare equivoci, non con il  Boccaccio Giovanni o l’Ariosto Ludovico, ma forse sì col Paolo Monelli de Il ghiottone errante (1935) o l’Alberto Denti Di Pirajno de Il gastronomo educato (1950), per dirne un paio fra altri che vengono citati tutti in edizioni moderne o successive all’originale.
Ad ogni modo, andiamo a dare una prima occhiata al volume.
La struttura è quella dichiarata dall’autore. Si parte dalla tavola medievale con capitoli dedicati a Palermo, Milano e Venezia, poi ecco il Rinascimento con Roma, Ferrara e ancora Roma, un intermezzo sul cibo di strada (Bologna, Napoli, Torino) e oplà siamo a fine Ottocento con Napoli, Firenze e con Genova porto e la cucina degli emigranti, letta scorrendo Sull’Oceano di Edmondo De Amicis. Da qui si salta alla manifestazione “Villaggio rustico di Mussolini”, tenuta a Roma al Circo Massimo nel 1938, e poi a Torino nella Taverna del Santopalato futurista, e infine a Milano. L’ultima sezione, la sesta, si apre con Roma 1954 e il miracolo gastronomico, per passare ad una case history davvero istruttiva, quello del miracolo dei tortellini Rana, a cui vengono dedicate (guarda guarda) ben 10 pagine. Si chiude sulla cronaca del nostro studioso errante in visita alla manifestazione del Salone del Gusto di Torino e il giudizio sull’iniziativa movimentista di Terra Madre di Slow Food. Come dire: quattro salti in cucina e a tavola.
Passiamo alla lettura. Si parte con la descrizione della fantastica location del Mulino Bianco, portata ad esempio – altra case history – per dimostrare una tradizione inventata, la mitografia costruita sulla cucina italiana come cucina contadina, con i valori immateriali a questa legati, e dunque: una cucina sana, onesta e genuina. Il dettato della scrittura è scorrevole ed efficacemente narrativo, vicino allo stile anglosassone (mostrare piuttosto che dire), ma più spesso alla sceneggiatura cinematografica. Così ci si gode la vivacità della vita quotidiana della Milano medievale di Bonvesin de la Riva, fra sudiciume e chiasso ed i pettegolezzi sugli inciuci di palazzo.
Da subito si fa chiaro il taglio per così dire narrativo che Dickie vuole dare alla sua storia, che è tutta nel gusto ripetuto di raccontare gli aspetti più sordidi e scurrili di personaggi ed episodi storici famosi. Una storia del mangiare e della tavola fatta andando a guardare nelle mutande, nel letto e nei pitali.
Ecco allora particolari pruriginosi sulla vita sregolata del Platina, l’autore del De honesta voluptate et valetudine o sulla bruttezza del cardinale Giovanni Maria del Monte, in arte papa Giulio III. Di lui ci viene raccontato un episodio saliente relativo alla sua turpitudine sessuale. Dopo aver generato un centinaio di bastardi, sembra che al capezzale della madre morente avesse fatto voto di non più praticare con donne ma di dedicare le sue attenzioni ai soli giovinetti. Promessa poi mantenuta, al punto da investire il suo favorito, un diciassettenne che aveva in casa come ammaestratore di scimmie, della porpora cardinalizia.
I lettori ormai assuefatti dall’attualità alla cronaca di sordide storie di ammazzamenti, violenze e stupri, troveranno nella storia del Dickie numerosi altri motivi per esercitare la loro morbosità. Si veda la descrizione delle efferatezze commesse dai Lanzichenecchi nel sacco di Roma del 1527, con i preti fatti a pezzi ed appesi per i genitali, e i cardinali costretti a vestire abiti femminili e poi scrupolosamente violentati. Il racconto è, con cinematografica sapienza, “montato” con le portate del pranzo servito per celebrare le nozze di Ercole d’Este e Renata di Francia, alternando barbarie e civiltà, come il Dickie aveva dichiarato nell’introduzione sull’autorità di Walter Benjamin.
I coprofili apprezzeranno le sudice abitudini del re lazzarone Ferdinando IV di Borbone, che mangiava i maccheroni con le mani ed inseguiva a braghe calate i suoi famigli col pitale in mano perché ne ispezionassero “il puzzolente contenuto” (p. 198). Ma ancora, gli amanti del genere potranno deliziarsi con la descrizione degli effetti del colera morbus a Napoli ed apprendere con gusto quale consistenza e colore regalassero alle feci nel colerico all’ultimo stadio. A fronte di bassezze del genere, è un sollievo leggere che il trentenne Pellegrino Artusi, quando gli scagnozzi del Passatore mettono a sacco la sua casa a Forlimpopoli violentando la sorella, era “celibe, miope e sofferente di emorroidi”. A pensarci, sorprende e dispiace che parlando del Cavour l’autore non abbia dato il giusto peso al fondamentale apporto dato all’unificazione nazionale dalla cuginetta del conte, la contessa di Castiglione, mandata a Parigi a sollecitare con le sue grazie l’appoggio di Napoleone III alle mire sabaude sulla penisola.
Ma veniamo ai contributi studiosi, si far per dire. Con l’aria smaliziata di quello che non si lascia intortare, che non la manda dire ed è venuto a toglierci ogni illusione su cosa sia la cucina italiana, il Dickie ci sorprende affermando che nel Trecento spolverare zucchero sulle lasagne non ne faceva per questo un dessert – d’accordo, molti fra i lettori comuni a cui è destinata l’opera lo apprenderanno per la prima volta. È sempre lui a dirci che non fu Marco Polo ad introdurre gli spaghetti dalla Cina; ma non aggiunge che furono probabilmente gli arabi, arrivati fin sotto la grande Muraglia nel 751, ad importare la tecnica per produrli in Sicilia. Allo stesso modo, nonostante l’enciclopedica vetrina di fonti, quando fissa la prima apparizione nel 1844 di una ricetta di vermicelli con salsa di pomodoro “su un libro di cucina napoletana”, manca di dirci quale libro sia. Non si tratta, evidentemente, Del Cibo Pitagorico (1781) di Vincenzo Corrado, dove dei pomodori è scritto che si prestano ad infinite “conditure”, di pesce, carne e di paste, né della Cucina teorico-pratica (1839 e non come indicato 1837) di Ippolito Cavalcanti duca di Buovicino, che riporta una ricetta di “vermicelli con purè di pomodoro e vongole”. Ma infine – ed è la mancanza più grave – del periodo che va dalla fine Ottocento allo scoppio della prima guerra mondiale, il Dickie ignora tutto: libri, manuali, periodici, cuochi e soprattutto i numerosi ricettari femminili (ne cita solo due tardi della Fernanda Momigliano), l’attività degli istituti agrari di economia domestica, le scuole rurali, i manuali di igiene e buon gusto (del Paolo Mantegazza dimentica il primo Almanacco dedicato all’Igiene della cucina, 1865), i frutti del rapporto di scambio fra città e contado, insomma tutto quello che concorse alla prima ricognizione e codificazione delle diverse espressioni della cucina regionale e locale della penisola che sarebbero andate, grazie all’azione dei cuochi professionali e alla rielaborazione borghese delle padrone di casa, a costituire la tradizione della cucina italiana.
È forse per questa lamentata mancanza delle fonti (non trovate, non cercate?) che un libretto manoscritto di ricette redatto nel 1918 da due prigionieri italiani in un campo tedesco della prima guerra mondiale, diventa il testo di riferimento universale per l’intero periodo. Col riscontro di questa sua scoperta, Dickie cincischia a disquisire sulla formula originale autentica del pesto genovese: con cipolla/con aglio? Con prezzemolo/basilico? Pinoli o no, maggiorana anche? Per dire: vedete come cambiano le ricette? Mica sono sempre state come le conosciamo. E il pistou provenzale e la picada di Maiorca, navigano lontano ignorate.
Poco importa che il fiume toscano Merse divenga Merce e Massetana da strada si faccia paese, o che il cuoco dell’Artusi da Ruffilli muti il suo nome in Raffilli, sono equivoci che nascono forse (va scusato) dalla diversa pronuncia inglese. Quello che c’interessa è se questo libro la storia degli italiani a tavola l’abbia raccontata. E con gusto. Bèh, con gusto poi no, con disgusto, sicuramente.
La propensione al giornalismo e l’esperienza di comunicatore del Dickie è troppo più forte della natura studiosa che lui protesta di avere. Se escludiamo il ricettario manoscritto dei due prigionieri italiani, le fonti del nostro altro non sono che letture di buoni ed accreditati autori, se si vuole, collazionate come in un bignami e condite a puntino con notazioni scandalistiche inessenziali per suffragare la tesi cucina italiana uguale cucina cittadina, ma  fondamentali per stuzzicare l’attenzione del lettore medio, lo stesso che da turista s’incanta all’acquisto di quei minuscoli cessi di ceramica con la scritta: “saranno grandi i papa, saranno grandi i re, ma quando qui si siedono son tutti uguali a me”. Uguale.

John Dickie, Con gusto. Storia degli italiani a tavola, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 437. 20,00 €.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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