Negli ultimi venti anni sono stati numerosi i libri di autori, principalmente anglosassoni, dedicati ai vini francesi. A parte il fenomeno Parker, i due ponderosi volumi di J. Anson su Bordeaux e J. Morris sulla Borgogna, pubblicati da Berry Bros. & Rudd, che hanno fatto seguito ai lavori ormai classici di S.Brook e C. Coates , non sono rimasti isolati : si pensi,solo per citarne qualcuno, alle importanti monografie di P. Liem e C. Curtis sulla Champagne o ai libri di J. Livingstone-Lermonth e M. Walls sui vini del Rodano. Tutti questi libri, ben noti al pubblico internazionale, anche italiano, hanno però riguardato per lo più uno specifico territorio regionale.
La ponderosa opera di Bonné (2 volumi di complessive 860 pagine) sul “nuovo” vino francese -che segue a 10 anni di distanza un altro suo libro dal titolo similare,“The New California Wine”, divenuto presto un’opera di riferimento per la conoscenza dei vini californiani- prende invece ambiziosamente in esame l’intero territorio francese, senza trascurare alcuna delle sue regioni, e con grande ricchezza di dettaglio.

Cosa non è? Non è una guida ai vini e ai produttori.
Chi si aspettasse una classica guida ai migliori vini e ai loro produttori, sia pure su scala nazionale, del tipo di quelle ben note della “Revue du Vin de France” o dell’ Hachette, resterebbe deluso. Il lettore che li cercasse, non vi troverà infatti alcun punteggio, né in centesimi, né in forma di numero di stelle o altri simboli a indicare il loro prestigio o quello delle cantine di provenienza: semplicemente non è quella l’intenzione dell’autore, che è piuttosto tracciare un ritratto più complessivo del mondo del vino francese e dei suoi cambiamenti, già avvenuti, a partire dalla metà del secolo scorso, o ancora in divenire. Di più: in tutta l’opera traspare l’evidente intento di spingersi ben oltre i limiti classici della critica enologica alla ricerca di una specifica identità nazionale o regionale, spesso con spunti molto interessanti. Non tutte le sue valutazioni sono ugualmente condivisibili, anzi alcune sono decisamente di parte, spesso sostenute dalla scelta, nelle numerose interviste ai produttori, di quelli più omogenei rispetto alle sue convinzioni. E’ evidente la simpatia per la viticultura organic, per i piccoli produttori artigianali, spesso di territori ritenuti marginali (per es.: in Borgogna, i vignerons di Maranges sono rappresentati in maggior numero di quelli di Puligny-Montrachet), come la sua distanza, se non vera e propria avversione per le cooperative, il grande négoce, troppo frettolosamente ritenuti come espressione di un approccio quantitativo o mercantilistico o gli Châteaux dei grandi capitalisti .Non è certo un caso che l’epilogo del primo volume, dedicato alla descrizione dei territori, sia intitolato con una oscura località dell’Aveyron, Campouriez.
Come è strutturata l’opera?
La struttura del lavoro di Bonné è presto descritta. Si tratta di due volumi, il primo dei quali dedicato alla descrizione del contesto generale e del terroir, nelle sue diverse articolazioni regionali, intitolato“The Narrative”, e l’altro focalizzato invece sui protagonisti, ossia i vignerons più emblematici e le loro cantine.

Dopo una breve introduzione volta a mostrare la complessità del suo progetto (“c’est compliqué” è una frase ricorrente), prima di entrare nel vivo dei diversi territori regionali, Bonné prende le mosse da un tema centrale nella cultura francese del vino, quella di “patrimoine”, per proseguire poi con l’esame delle varie regioni del vino francese: partendo dal cosiddetto Grand Est- La Champagne e l’Alsazia con l’appendice Lorraine-, per ruotare poi verso sud -ovest, passando alla Borgogna e al Beaujolais, per arrivare infine a Bordeaux e al Sud-Ouest. Sia l’ordine di trattazione, che la articolazione dei territori sono in parte otiginali: per es. la decisione di scomporre la Valle della Loira (unica fra tutte) in due differenti capitoli (Ovest- région nantaise e l’l’Anjou fino al Saumurois- ed Est- Touraine, il Cher e Sancerrois , Auvergne fino al confine con la Borgogna), o l’aggiunta, alla classica distinzione tra Rodano settentrionale e meridionale, del Middle Rhone, comprendente l’Ardèche.
Riccamente illustrati dalle belle fotografie di S. Ireland (un vero peccato che siano senza l’indicazione dei luoghi raffigurati) e da una serie di cartine, dallo stile leggermente retro, ma molto efficaci, i capitoli sui diversi territori regionali sono inframezzati da numerose “finestre”, per l’approfondimento di aspetti specifici: ad es., nel capitolo sulla Champagne, le “altre” uve , il dosage, il ruolo del legno, i rosé dei Riceys. Vi sono però anche degli inserti più corposi, in effetti dei veri e propri capitoli aggiuntivi , riguardanti tematiche più trasversali o al centro dei dibattiti attuali, inseriti più o meno strategicamente nella trattazione dei vari territori regionali: l’ascesa e il declino delle appellations, il contributo innovativo di Chauvet , i vini cosiddetti naturali, il “new farming”, il cambiamento climatico. Sorprendentemente, anche un capitolo sul “paese delle meraviglie” del gamay- per Bonné l’uva del XXI secolo-, situato dopo la trattazione dell’Auvergne, anziché accanto al capitolo del Beaujolais.
Il secondo volume è dedicato ai produttori, specie quelli meno conosciuti
Il secondo volume, dedicato ai produttori, è organizzato in base alla stessa sequenza regionale. Nella presentazione dei produttori da lui scelti, l’autore non si limita a seguire le ripartizioni classiche dei territori regionali, ma ne introduce altre più specifiche, a rappresentare aree meno conosciute ma ritenute interessanti per rappresentare il cambiamento . Per es. Bonné, nel capitolo dedicato ai territori orientali della Valle della Loira, non parla semplicemente della Touraine nel suo insieme, ma la articola in due sezioni distinguendo la Touraine occidentale da quella orientale, e, in quello sulla Borgogna introduce, accanto alle due classiche Côte de Nuits e de Beaune, l’assai poco conosciuta Côte des Pierres : l’area tra Comblanchien e Corgoloin, famose più per le sue pietre che per i vini.

Dopo una sintetica illustrazione dell’approccio adottato, i diversi capitoli illustrano con schede di diversa lunghezza, i domaines prescelti, contenenti note sulle cuvées prodotte, e non solo quelle più conosciute. Alcuni di essi sono poi segnalati con l’etichetta “name to know” e un numero assai più ristretto come “benchmark”: questi ultimi messi in maggior evidenza all’interno di speciali riquadri di colore diverso . I primi rappresentano per l’autore i maggiori talenti, soprattutto nuovi, che si distinguono per il loro lavoro eccezionale di esaltare innovando il proprio territorio. I benchmark sono invece domaines più consolidati nel tempo, ma che hanno la stessa spinta a far avanzare la cultura del vino, spesso spinti da eredi della nuova generazione, perché “il cambiamento é una forza inclusiva”.
Ci sono assenze che fanno notizia
A questo proposito, va detto che, se certamente nessun’opera può essere esaustiva e comprendere tutti i produttori di valore, talune scelte, o meglio talune assenze, non possono passare inosservate, visto anche che le aziende descritte sono più di 800. Per es. quella di Maison come Krug, Salon, Dom Perignon, Bollinger o Egly-Ouriet nella Champagne, di Zind-Humbrech tra quelli alsaziani, del Clos Rougeard o del Clos Naudin nella Loira. Ancora più clamorose sono alcune scelte relative alle due regioni vitivinicole più famose della Francia. In Borgogna , il lettore cercherà invano il Domaine Leroy, ma troverà invece il piccolo domaine di Fiona Leroy, vigneronne a Maranges, così come non potrà leggere del Domaine Coche-Dury e accontentarsi di quello, assai meno noto, di Fabien Coche a Meursault, né vi è cenno del Domaine Leflaive, con il solo Domaine Benoît Ente a rappresentare il terroir di Puligny-Montrachet, affogato in un mare di vignerons di Chassagne-Montrachet e Meursault. Non va diversamente in Côte de Nuits: ad es. a Gevrey-Chambertin, le glorie del suo territorio sono affidate al suo unico benchmark, Arnaud Mortet , ignorando alcuni dei suoi maggiori interpreti come il Domaine Rousseau, o quelli di Trapet o Dugat-Py. Nel Maconnais tra i 9 produttori selezionati solo due fanno capo all’unica appellation dotata di premier cru, Pouilly-Fuissé, ed entrambi al comune più meridionale (Chaintré), e dell’icona riconosciuta della regione, Guffens-Heynen, neppure l’ombra. A Bordeaux: non vi è nessun Premier cru del Médoc (con Pontet-Canet e Palmer i soli grand cru classé come benchmark), delle Graves o del Sauternais, mentre il Libournais è rappresentato esclusivamente da Pomerol, con Saint-Émilion praticamente cancellato, con il solo Domaine Belair-Monange (e nessun premier grand cru A) di un certo peso confuso con altri di assai minore importanza e notorietà.
In definitiva si tratta di un’opera originale e stimolante, caratterizzata da una scrittura scorrevole come quella di un bravo giornalista, ma anche rigorosa e densa di informazioni, a tratti appassionante. Un’opera che farà (e fa già) discutere, che ha anche, tra i suoi meriti, quello di dare visibilità a territori finora ritenuti minori (come le Hautes-Cotes in Borgogna o l’Aveyron ), rivalutare varietà neglette, come il gamay e l’aligoté, talvolta scoprire talenti sconosciuti.
Bonné, Jon (2023): « The New French Wine. Redefining the world’s greatest wine culture », Speed Press, New York