Stampa estera. La Revue du Vin de France, n.6529 min read

In questo numero ci sono molti articoli interessanti. Il primo di essi è “I tesori della Corsica”, col titolo che riempie la parte maggiore della copertina, mentre il secondo (“Lo spleen dei vignerons”), che apre il numero e riprende l’editoriale di Saverot (“Rilanciare l’INAO”) è meno comprensibilmente messo più in sordina in basso . Questi due sono anche gli articoli che considero più importanti e sui quali mi soffermerò maggiormente, limitandomi ad uno sguardo assai più veloce sugli altri.


Oggi la  Corsica è forse la regione vinicola della quale più si parla nelle riviste francesi, e non solo per la sua bellezza: in essa infatti si trova una quantità non trascurabile di vitigni autoctoni o forse no, ma sconosciuti in altre parti della Francia e per lungo tempo dimenticati: i consumatori , soprattutto i millennials che rifiutano i vini dei padri (i grandi Bordeaux e Borgogna), in parte a causa del loro costo, in parte spinti dalla  curiosità di esperienze nuove, li cercano sempre di più.

Dopo decenni nei quali erano state trascurate a vantaggio di quelle classiche e internazionali, le varietà indigene sono state riscoperte, dapprima da un piccolo gruppo di pionieri, poi , via via da un numero maggiore di vignerons, che hanno ripreso a coltivarle e a produrre vini che hanno destato l’interesse crescente degli appassionati.

Corsica

Che la Corsica abbia preso davvero sul serio i propri autoctoni è dimostrato dall’iniziativa  del CRVI (Centre de recherche viti-vinicole insulaire”), un’associazione , il cui consiglio di amministrazione è interamente costituito da viticultori corsi, fondata nel 1982,  con lo scopo di innovare la vitivinicoltura isolana sulla via della qualità e della tipicità. Presieduta da Nathalie Uscidda, autrice  di un’opera  sul “Riacquistu des cépages corses”, il Centro svolge attività di ricerca e di sperimentazione, disponendo anche di una proprietà vitivinicola di 4,5 ha. a San Giuliano , sulla costa orientale , che oltre a fungere da conservatorio delle diverse varietà , dispone di un proprio “chai” per le vinificazioni . I vitigni autoctoni corsi sono molti, e alcuni di essi assai interessanti.

Tra le varietà a bacca rossa, la più qualitativa è lo sciaccarellu, che Anne Claude Leflaive chiamava il “pinot noir sauvage”. Diffuso soprattutto nella parte meridionale dell’isola, si tratta in realtà del mammolo toscano.  Vinificato spesso in purezza, dà vini di notevole interesse come lo Chemin de Croix di Clos Venturi (97/100  quello del 2020) e il Monte Bianco del Domaine Comte Abbatucci (stesso punteggio il vino del 2019). Nelle vigne di Abbatucci, pioniere  della biodinamica corsa, un violoncellista suona musiche di Bach durante le  fasi cruciali (dalla potatura alla vendemmia) delle varie stagioni, e  da alcuni anni, nella sua parcella di carcaghjolu nero da cui produce una sorprendente cuvée , la Valle di Mare, si utilizza l’acqua di mare al posto di zolfo e rame con risultati sorprendenti.

Il  carcaghjolu neru è  un vitigno vigoroso e fertile , ma capriccioso, che ha bisogno di suoli poveri per esaltarsi: dalle note sanguigne, sa di liquirizia e frutti neri, non sopporta la mediocrità. Eccellente il Costa Nera del Clos Canarelli (95/100 il 2017), ma sono eccellenti anche quello in anfora del Clos Canereccia 2018 e quello del Domaine U Stiliccionu 2017 (entrambi 94/100). Sciaccarellu e carcaghjolou sono vinificati anche in assemblage, insieme con un altro autoctono, il minustellu, una varietà molto tannica che richiede estrazioni  dolci,  come nel Clos Canarelli nella cuvée Tarra di Sognu 2019 (97/100).

Comte Abbatucci

Il Comte Abbatucci assembla i primi due vitigni con altri cinque autoctoni differenti, tra i quali l’aleaticu, per produrre il suo Ministre Impérial (anch’esso 97/100). Clos Canarelli, Comte Abbatucci ,  Clos Venturi , Clos Canareccia firmano le migliori cuvée bianche, tutte  assemblaggi di varietà autoctone o tradizionali, dal vermentino al riminese, dal bianco gentile al carcaghjolu bianco e al genovese: 96/100 per il Tarra de Sognu bianco 2019 del Clos Canarelli e altrettanti per il Chiesa Nera 2018 del Clos Venturi. Interessante constatare come, pur avendo la Corsica diverse AOP, molte delle cuvée migliori adottino la denominazione generica di Vin de France, cosa che ci porta all’altro tema che ho scelto tra quelli di questo numero. Prima di passare ad esso, è appena il  caso di sottolineare l’abbondanza di nomi italiani o che rinviano a varietà del nostro paese, soprattutto toscane e liguri: sapete che c’è anche un pagadebiti? Una varietà molto produttiva e piuttosto neutra come la corrispondente varietà romagnola.

“Relancer l’INAO” è il titolo dell’editoriale di Saverot che apre questo numero. L’importanza e il prestigio dell’Istituto nazionale che sovraintende alle denominazioni in Francia, nato quasi un secolo fa (nel 1935) non è mai stato più basso. I segnali di un calo di fiducia sono molteplici. Se il progetto di riformulazione della denominazione regionale dei vini della Borgogna, che prevedeva l’esclusione di ben 64 comuni della Côte d’Or, della Saône-et-Loire e della Yonne aveva dovuto essere  frettolosamente accantonato a seguito di una vera e propria rivolta dei vignerons, un segnale ben più preoccupante appare la scelta, sempre più diffusa, di vitivinicultori di prestigio di rinunciare alle DOP adottando  l’anonima dizione “Vin de France”.

Il problema è grosso e la RVF se ne era già occupata qualche numero fa. Ora Benoist Simmat propone la sua nuova inchiesta sui “Vignerons bye bye”, che abbandonano polemicamente le DOP per alcune o per tutte le loro cuvée. Già solo scorrere un elenco parziale dei ribelli fa impressione: Josmeyer in Alsazia, Guffens-Heynen in Borgogna, il Domaine Labet nello Jura, il Clos Canarelli e il Clos Venturi in Corsica, i Domaines La Sansonnière e  Didier Daguenau  il Domaine de l’Ecu e il Domaine Stéphane Bernardeau nella Loira, il Domaine des Torettes nella Valle del Rodano, e tantissimi altri non sono pochi e neppure tra i Domaines minori. E anche nel bordolese cominciano ad esserci, seppure in modo più defilato, dei seguaci: per es. la Closerie Saint-Roc, clone dello Château Le Puy della famiglia Amoreau, o il Clos Puy-Arnaud nel Castillonnais , per la sua Cuvée Bistrot producono alcune etichette come Vin de France.

Le ragioni sono molteplici: alcuni anche per rivalsa del fatto che dei comitati di assaggio talvolta inadeguati abbiano rifiutato il riconoscimento dell’AOP ad alcuni dei vini  di punta dei loro territori (è il caso, tra gli altri, dei Pouilly-Fumé di Louis-Benjamin Daguenau ), altri per motivi legati a cambiamenti dei disciplinari ritenuti inutili o dannosi (un esempio tra tutti, quello di Eloi Durrbach, creatore di Trevallon),  altri per insofferenza della rigidità dell’INAO (Franck Pascal, uno dei leader della rinascita di Bergerac afferma che le AOC dovrebbero controllare solo l’origine dei vini), altri infine per il desiderio di tentare vie nuove contro l’immobilismo dell’INAO.  E’ chiaro che l’INAO deve rinnovarsi e magari riflettere perché siano soprattutto i vini giudicati migliori da esperti e consumatori quelli presi maggiormente di mira e più spesso esclusi, mentre vengono accettati senza colpo ferire prodotti mediocri dell’industria. Legittime le proteste dei vignerons, ma è forse altrettanto illusorio pensare  che la loro rivolta non abbia dei costi a lungo termine, anche se certo minori per i marchi più conosciuti e ricercati . Come giustamente ammonisce Saverot nell’editoriale, il prezzo globale di perdita di prestigio e anche di mito dei vini francesi che hanno fatto dei loro territori il punto di forza, nel momento nel quale si anonimizzano in una denominazione generica che non fa alcun riferimento ad essi, può rivelarsi molto alto.

Vediamo ora rapidamente il resto. Innanzitutto le altre degustazioni: Champagne rosé e vini dell’AOC Touraine. I primi sono sempre più in auge e naturalmente l’estate è la stagione in cui sono più richiesti. La RVF ha raggruppato  gli assaggi, presentati da Olivier Poels, in due grandi categorie: i rosé gourmand  e quelli strutturati. La valutazione più alta (93/100) dei primi è quello di Leclerc Briant, assemblage in grande maggioranza da chardonnay, di esemplari freschezza e finezza. Poi i rosé di Billecart Salmon, Chartogne-Taillet, Pierre Gimonnet et Fils e Philipponnat,  con un punto in meno.Tra i rosé strutturati spicca il Rosé de macération di Benoit Lahaye (94/100), di superba complessità e con un perlage perfetto. Poi ,  a quota 93, i rosé di Bollinger, di Yann Alexandre (Blanches Terres) e Pascal Doquet (Antocyanes).

L’altra degustazione sistematica è quella dei vini bianchi e rossi dell’AOP Touraine: 112 vini assaggiati e presentati da Alexis Goujard.Tra i monovarietali bianchi, spiccano, tra i sauvignon, il Quatre Mains 2019 di Lagrange Tiphaine (94/100)  , e tra gli chenin, l’Amboise Bel Air 2019 di Coralie et Damien Delecheneau (92/100). I rossi  sono a base di cot (malbec), gamay o cabernet franc: i migliori secondo Goujard sono rispettivamente l’Amboise C ôt Vieilles Vignes 2018 di La Grange Tiphaine (93/100), il Nebula 1894 (il nome, non il millesimo) di L’Affût (90/100) e il Cinabre 2018 del Domaine de la Garellière (92/100). Tra gli assemblages ha un buon allonge la Cuvée Marcel 2016 dello Château de la Roche en Loire (92/100).

Gérard Bertrand

Altri assaggi : lo Château de Malleret Haut-Médoc in verticale dal 2000 (ne parla Pierre Casamayor in “Vie de château”), con 2010 e 2019 al più alto punteggio (94/100) e 2014 e 2015 immediatamente di seguito con un punto in meno; poi i Barsac degli Châteaux La Clotte-Cazalis (da non confondersi con La Clotte di Saint-Emilion) e Farluret a confronto,  due outsider di grande qualità che sfidano i crus classés (ne parla Roberto Petronio per la serie “Une appellation, deux styles”). In “Art de vivre” questa volta, ad essere assaggiati non sono vini, ma cidri e poiré normanni , bretoni  e delle altre regioni francesi che ne producono, un interessante diversivo per chi li ama.

Altri articoli diversi:  l’intervista  a Gérard Bertrand (intervistatissimo in questi ultimi tempi), conosciuto da molti come titolare di una importante attività di négociant, ma anche proprietario di 880 ettari di vigna certificati in bio;  l’ampio servizio-inchiesta di Jean Radvanyi dedicato alle cantine degli zar a Massafra, in Crimea, create nel XIX secolo da un principe russo tra le vigne in cui si producevano vini ispirati ai bordeaux, ai porto e ai borgogna. Perfettamente conservati , vi sono veri e propri tesori enologici. Per la serie dedicata ai diversi terroirs , Sophie de Salettes presenta quello di Les Baux-de-Provence: lo charme e la potenza delle Alpilles provenzali.

Cosa resta ancora? Le notizie, le rubriche, le pagine degli opinionisti , la bottiglia mitica (Château Lafite-Rotschild 1959) e quella sulla quale si dibatte (Côtes-du-Jura Pinot noir Hari Om 2020).

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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