Stampa estera a portata di clic: la Revue du Vin de France, aprile 20199 min read

Una bottiglia di mondeuse della Savoia e un bianco della Languedoc annunciano in copertina due delle tre grandi degustazioni sistematiche di questo numero, dedicate appunto ai rossi della Savoia e ai bianchi della Languedoc. La terza  ha come tema i bianchi secchi  del Sud-Ovest, nei quali sono protagonisti il gros e il petit  manseng. Gli altri titoli di copertina sono per il terroir di Saint-Julien, i vini bio (si deve proibire l’uso del rame?) e il match tra i migliori locali del vino di Parigi e di Bruxelles.

Parliamo innanzitutto delle grandi degustazioni riportate nella  sezione finale della rivista, cominciando dai bianchi della Languedoc: una sorpresa per una terra finora marcata dai suoi rossi, nella quale i bianchi raggiungevano a fatica il 10%, ma la degustazione alla cieca   di oltre 500 cuvées mostra che la regione offre opportunità interessanti anche per i vini di questo colore, prodotti a partire dai  classici vitigni del sud , suggerendo una nuova definizione del sistema delle denominazioni (avremo presto dei Terrasses du Larzac bianchi?).

Una grande freschezza contraddistingue i bianchi d’altitudine di Pic Saint-Loup e delle Terrasses du Larzac, mentre un’impronta marina segna quelli del litorale (Corbières, La Clape, Picpoul de Pinet). Equilibrio e carattere  caratterizzano i vini delle zone interne, tra mare e colline (Gard, Faugères, Saint-Chinian…), mentre , nel settore  occidentale  di Limoux, chardonnay e chenin blanc hanno messo le ali.

Numerosi i coup de coeur dei degustatori: cinque vini hanno raggiunto i 17/20 , altri otto  16.5/20, e dieci i 16/20. Ma , quanto ai prezzi, è raro trovarne al di sotto dei 15 € la bottiglia: l’Aurel 2014, un Coteaux-du-Languedoc del Domaine des Aurelles (16.5/20)  ne costa 78 (oh la la), e l’Oro 2000 del Domaine Peyre-Rose (17/20), 56. Le novità e le curiosità interessanti: Christophe Peyrous  del Domaine Peyrous et Clos Marie, a Pic Saint-Loup, punta sul carignan gris e ritiene eccessiva la fretta con la quale si sono importate le varietà  del Rodano. L’italiana Sybil Baldassarre, già al suo esordio (nel 2015)  produceva ottimi bianchi nei suoi 3 ettari di vigna su suoli scistosi a 450 m. di altitudine; la Croix Chaptal rilancia la Clairette du Languedoc en moelleux, con superbi vini rancio; vieux cépages, come il terret-bourret,  e cultura biodinamica sono la via adottata dal Clos du Gravillas , mentre il Mas d’Espanet lancia carignan blanc, aubun e picpoul blanc; il Domaine Garrabou è la stella ascendente del terroir de Limoux.

Sono vini singolari quelli del vigneto alpino della Savoia, nei quali la mondeuse è la varietà regina, ma si fanno strada altri autoctoni come il persan e l’étraire, ai quali si aggiungono il gamay, la varietà a bacca rossa più diffusa nella regione, e il pinot noir, di più recente impianto. I risultati migliori vengono  indubbiamente dalla mondeuse, con ben quattro vini hanno raggiunto i 18/20, ma si fa strada, tra gli autoctoni, il persan  (il blécuet della Val di Susa).

Brilla la Cuvée Octavie 2017 del Domaine du Cellier des Cray, mentre, tra i vini a base di étraire, autorizzato nella IGP Isère, si fa apprezzare per la sua sapidità acida e il frutto affumicato quello del Domaine Finot. Il riscaldamento climatico sembra aver giovato ai rossi piuttosto che ai bianchi savoiardi, favorendo una migliore maturazione della mondeuse (grande risultato l’annata 2017 sopravvissuta alle gelate di aprile) e del gamay. Alcuni produttori praticano con successo la via degli assemblages: tra questi spicca il Domaine des Ardoisières , dove Brice Omont raggiunge i 18/20 con la sua cuvée Améthyste  (60% mondeuse e 40% persan). Nel Sud-Ouest della Francia, i due manseng , oltre che per gli eccellenti vini moelleux, brillano anche in versione secca, all’interno delle appellations Pacherenc du Vic-Bilh, Irouléguy e Jurançon. Densi, intensi e opulenti i primi, vibranti gli Irouleguy delle ultime annate,  di grande complessità gli Jurançon.  Da notare le sorelle Charrier, del Domaine du Moulié, che hanno introdotto l’arroufiac come varietà principale nei loro bianchi , il  bell’esempio offerto  dalla Cave coopérative di Irouleguy, motore  della  crescita qualitativa della denominazione, il Clos Thou che  si propone di promuovere gli autoctoni courbu, caramalet e lauzet per temperare l’acidità dei manseng.

Solo un accenno al servizio di Fabrizio Bucella e Alexis Goujard  sui 12 migliori indirizzi di Parigi e Bruxelles nei quali assaggiare grandi vini. Bar à vins, bistrots , ristoranti gastronomici, nei quali le carte dei vini sono “bien à l’honneur” non mancano nelle due città, a partire dal 228 Litres (la capacità di una barrique bordolese) parigino , dove è ancora possibile trovare qualche buon cru a meno di 40 euro la bottiglia,  al Les Brigittines della capitale belga, antico relais postale di stile Art Nouveau, luogo di ritrovo dei vignerons francesi quando si fermano a Bruxelles.

Soffermiamoci invece un po’ di più sul terroir di Saint Julien , bersaglio dell’expertise di Sophie de Salettes. Situata tra Pauillac e Margaux, è la più piccola delle AOC del Médoc, con poco più di 900 ha. in produzione che , oltre al comune di Saint-Julien –Beychevelle che dà nome all’appellation, comprende anche parcelle  storicamente legate ad alcuni crus classés a Cussac-Fort-Médoc (nella maggior parte), Saint-Laurent –Médoc e Pauillac.

I suoli di Saint-Julien sono caratterizzati da uno zoccolo geologico di argille, marne e calcari dell’Eocene, ricoperti di graves del Quaternario, costituiti da sabbie grossolane, più o meno argillose, ciottoli , galets e depositi alluvionali più fini. Saint-Julien è una terra di graves, notevolmente qualitative, ricca di cru classés, 11 dei quali comprendono l’85% dell’area dell’appellation, principalmente dedicata al cabernet sauvignon. Il merlot  trova posto sulle terre più fresche, ma perde terreno, a profitto del cabernet sauvignon, anche a seguito del riscaldamento climatico.  Cabernet franc e petit verdot  sono utilizzati negli assemblages dei diversi Châteaux  a secondo della loro storia e la qualità delle annate. C’è meno bisogno del corpo che quest’ultimo potrebbe aggiungere, facendo perdere di eleganza, mentre, per quanto riguarda il cabernet franc, la maggiore freschezza e il carattere mentolato sarebbero molto apprezzate se avesse una maggiore regolarità.

Siamo ora arrivati all’ultimo articolo annunciato  nei titoli di copertina: il dossier dedicato all’ecologia e alla viticultura biologica. Una domanda in primo piano: bisogna abolire l’impiego del rame, ingrediente principale della bouillie bordolese , finora ritenuto indispensabile per combattere la minaccia della peronospora?

Considerato come  cruciale e “naturale”  dalla viticultura bio, è oggi sotto accusa delle autorità europee, le quali  hanno disposto la sua riduzione da 6 Kg. l’anno (sino ad un massimo di 30 in cinque anni) a 4 l’anno (sino ad un massimo di 28 in sette anni). Nello stesso tempo, però, l’EFSA ha “salvato” il glifosato, poggiandosi sulle expertises di Monsanto (ahi, ahi, ahi).

Come ridurre o addirittura eliminare il rame? Da un’inchiesta  effettuata presso 1.900 vignerons bio di tutta la Francia ha evidenziato al momento un consumo  medio di 2.98 Kg/anno, con una punta di 4.14 nel 2018, anno di forte pressione del mildiou. Il fronte dei vignerons non è però uniformemente schierato: Jean-Marie Guffens, vignaiolo “di culto” del Mâconnais,  accusa esplicitamente  coloro che adottano metodi di conduzione biologici, di aver inquinato i suoli con una eccessiva utilizzazione di rame, non senza conseguenze, prima tra le quali, un aumento dell’ossidazione dei vini. Questi ultimi si difendono affermando di non essere affatto dei militanti del rame, che anzi cercano di limitare sempre di più.

Il savoiardo Giachino riferisce di averne utilizzato solo due kg. nel difficilissimo 2018, affidandosi, nei periodi in cui la pressione del mildiou è meno intensa, a decotti di erbe ( prêle, consoude e ortica).  L’impiego del rame nella viticultura risale al XIX secolo, quando l’ampelografo Alexis Millardet scoprì, quasi casualmente, il rimedio contro la peronospora: visitando lo Château Ducru-Beaucaillou, che sembrava immune al flagello, venne a sapere dal suo  régisseur che essi impiegavano una miscela di solfato di rame e calce polverizzata per tenere lontani i ladri d’uva. Millardet mise così a punto con il chimico Gayon la famosa bouillie bordelaise. Il sistema si rivelò molto efficace, ma, come sempre, i vignerons cominciarono a farne un uso eccessivo: nel XX secolo si giunse fino a 50 kg. per ettaro l’anno!

Quello del rame è dunque un inquinamento consolidatosi nel suolo nel corso di decenni. Oggi le dosi sono molto più basse, ma non basta : i vignaioli devono infatti affrontare un’eredità storica di eccessi dell’impiego di rame. Che fare? La scienza non ha ancora trovato le misure adatte a combattere più efficacemente  il mildiou e a eliminare gli eccessi di rame  accumulatisi nel suolo. Espedienti come il seppellimento delle foglie morte e dei legni della taille invernale,  l’impiego di sostanze stimolanti delle difese naturali delle piante, l’utilizzazione di ceppi geneticamente modificati più resistenti non sono al momento conclusivi, anche associandoli al lavoro della vigna e all’inerbamento.  La questione è tuttora aperta.

Vediamo ora, molto rapidamente , gli altri servizi non annunciati in copertina:   l’intervista  del mese a Jean-Christophe Comor, un passato come consigliere politico,  innamorato di storia medievale, oggi  a capo del Domaine Les Terres Promises a La Roquebrussanne, in Provenza.

Eccoci al ritratto del Domaine Les Cailloux di Châteauneuf-du-Pape, fatto da Pierre Casamayor e la verticale della cuvée Tradition  dal 1978;

Segue il confronto di due stili per un’appellation tra due produttori emblematici della Champagne , Benoît Lahaye (Bouzy) e Francis Égly (Ambonnay).

La gastronomia  con il grand accord tra il capriolo arrosto al miele  del ristorante Taillevent con un Ducru-Beaucaillou del 2003,  i suggerimenti di Olivier Poels per l’accord minute con il salsifi (la scorzonera) e l’itinerario gourmand a Lyon guidati da Claude e Franck Jabouley (Cave Milleval) seguono a ruota.

Si chiude, come sempre, con la discussione su una bottiglia: Alexis Goujard e Guillaume Baroin  si confrontano con il lato infantile della vita su un Bugey-cerdon 2018 del domaine Renardat-Fache, bolla ancestrale a base di gamay in blend col poulsard, 8° gradi di alcol e 60 gr. di zucchero residuo.

Che cosa resta? Naturalmente le rubriche, le lettere dei lettori, i fatti del mese, le pagine dei columnist. Tra le tante, segnalo quella di Olivier Poels dal titolo significativo “Salviamo il gusto del vino vecchio”: diventa infatti sempre più difficile riconoscere e apprezzare dei vini invecchiati, scambiando frequentemente, talvolta anche professionisti, le note di miele, acacia frutta secca di un grande Chablis di 20 anni per una inesistente ossidazione.

 

 

 

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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