Scusi, mi passa il tomo?5 min read

Le carte dei vini dei ristoranti di livello buono e medio alto propongono a volte una scelta di bottiglie vastissima. Una strategia  che spesso connota poca personalità e coraggio, e che costringe il ristoratore a praticare ricarichi pesantissimi. 
Che ci fa il vino nei ristoranti? La risposta che il consumatore colto e appassionato solitamente fornisce più o meno suona a difesa del primato del vino sul regno agroalimentare – una specie di leone nella savana, tanto per intenderci.
In realtà, nei ristoranti, ovvero quei locali che nei Paesi anglosassoni vengono definiti gourmet restaurants, distinguendosi pertanto dai normali restaurants (le italiane trattorie) e soprattutto dai wine restaurants (ovvero le osterie), il vino dovrebbe essere “solo” di accompagnamento ai piatti, e dunque la carta dovrebbe essere costruita a partire da questi ultimi.
Cosa che avviene solo di rado.
Entri in un ristorante di pesce e trovi una selezione di Barolo che nemmeno una baita di montagna specializzata in cervo e daino.
Vai in trattoria e trovi vini da 100 euro in carta, con ricarichi anche del 200%.  Dove sta il problema (perché certamente di problema si tratta)?
A parte le questioni di ordine distributivo ed il rapporto coi fornitori (che comunque negli ultimi anni è maturato – sono finiti i tempi in cui per avere 12 bottiglie del vino premiato era necessario riempire la cantina di vini non voluti o di poco conto), il bandolo della matassa risiede nella scarsa passione e/o preparazione del ristoratore, che in primo luogo paga soggezione nei confronti del vino e secondariamente ritiene di dover soddisfare tutte le possibili richieste dei clienti.
Preoccupazione che però non gli insorge nel caso delle pietanze.
E allora, perché se un ristoratore non si preoccupa di non proporre – chessò – l’agnello – perché magari non gli piace o non si confà al proprio stile di cucina – dovrebbe preoccuparsi invece di avere una carta dei vini onnicomprensiva ed esaustiva?
Perché non costruire una carta esclusivamente attorno al proprio gusto personale, ammesso appunto che ce l’abbia, ed ai piatti?
A cosa serve presentare quella che ormai si è affermata (del tutto inutilmente) come la Carta Tipo, che esige la presenza di almeno qualche vino da tutte le regioni d’Italia, e magari qualcosina anche dall’estero, e che implica per il ristoratore il ritrovarsi con una cantina in cui si ha immobilizzato – e per alcune bottiglie senza speranze di vendita – un bel po’ di soldi?
A parte la questione fondamentale che nel ricarico del vino che verrà venduto al tavolo il ristoratore dovrà farsi pagare tutto il capitale immobilizzato e anche tutte le bottiglie che si vendono col contagocce, si va incontro di fatto ad una spersonalizzazione dell’offerta e ad un conseguente abbassamento del livello qualitativo generale del locale.
Ma come rimediare a tutto ciò, ovvero come costruire una carta fatta su misura sui piatti e una cantina personale e intelligente?
Con l’aiuto del sommelier.
Il quale, visto che costituisce un peso economico intollerabile per la stragrande maggioranza dei ristoratori, deve trasformarsi in un consulente esterno con un pacchetto di ristoratori/clienti. Proprio come un avvocato o un commercialista.
Ma di questo parleremo la prossima volta.  

  
Che ci fa il vino nei ristoranti? La risposta che il consumatore colto e appassionato solitamente fornisce più o meno suona a difesa del primato del vino sul regno agroalimentare – una specie di leone nella savana, tanto per intenderci.
In realtà, nei ristoranti, ovvero quei locali che nei Paesi anglosassoni vengono definiti gourmet restaurants, distinguendosi pertanto dai normali restaurants (le italiane trattorie) e soprattutto dai wine restaurants (ovvero le osterie), il vino dovrebbe essere “solo” di accompagnamento ai piatti, e dunque la carta dovrebbe essere costruita a partire da questi ultimi.
Cosa che avviene solo di rado.
Entri in un ristorante di pesce e trovi una selezione di Barolo che nemmeno una baita di montagna specializzata in cervo e daino.
Vai in trattoria e trovi vini da 100 euro in carta, con ricarichi anche del 200%.  
Dove sta il problema (perché certamente di problema si tratta)?
A parte le questioni di ordine distributivo ed il rapporto coi fornitori (che comunque negli ultimi anni è maturato – sono finiti i tempi in cui per avere 12 bottiglie del vino premiato era necessario riempire la cantina di vini non voluti o di poco conto), il bandolo della matassa risiede nella scarsa passione e/o preparazione del ristoratore, che in primo luogo paga soggezione nei confronti del vino e secondariamente ritiene di dover soddisfare tutte le possibili richieste dei clienti.
Preoccupazione che però non gli insorge nel caso delle pietanze.
E allora, perché se un ristoratore non si preoccupa di non proporre – chessò – l’agnello – perché magari non gli piace o non si confà al proprio stile di cucina – dovrebbe preoccuparsi invece di avere una carta dei vini onnicomprensiva ed esaustiva?
Perché non costruire una carta esclusivamente attorno al proprio gusto personale, ammesso appunto che ce l’abbia, ed ai piatti?
A cosa serve presentare quella che ormai si è affermata (del tutto inutilmente) come la Carta Tipo, che esige la presenza di almeno qualche vino da tutte le regioni d’Italia, e magari qualcosina anche dall’estero, e che implica per il ristoratore il ritrovarsi con una cantina in cui si ha immobilizzato – e per alcune bottiglie senza speranze di vendita – un bel po’ di soldi?
A parte la questione fondamentale che nel ricarico del vino che verrà venduto al tavolo il ristoratore dovrà farsi pagare tutto il capitale immobilizzato e anche tutte le bottiglie che si vendono col contagocce, si va incontro di fatto ad una spersonalizzazione dell’offerta e ad un conseguente abbassamento del livello qualitativo generale del locale.
Ma come rimediare a tutto ciò, ovvero come costruire una carta fatta su misura sui piatti e una cantina personale e intelligente?
Con l’aiuto del sommelier.
Il quale, visto che costituisce un peso economico intollerabile per la stragrande maggioranza dei ristoratori, deve trasformarsi in un consulente esterno con un pacchetto di ristoratori/clienti. Proprio come un avvocato o un commercialista.
Ma di questo parleremo la prossima volta.  

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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