Rock senza solfiti6 min read

Disgraziatamente ai concerti rock si beve birra qualunque e si ingurgita fast food, per definizione. Fa parte del rituale, d’altronde ci si va per altro. Lo sballo viene dalla musica, specie se assordante come quella del metal di scena alle Cascine di Firenze lo scorso sedici giugno. La birra, buona o meno, ha un’immagine giovanilista e più legata del vino alla cultura britannica donde origina la maggior parte del genere musicale in questione.

Fatto sta che alle Cascine l’età media del pubblico era piuttosto alta, anche perché gli Iron Maiden, grandi star della serata, ce la cantano e ce la suonano da una quarantina d’anni, come del resto i comprimari Helloween, tirandosi dietro almeno un paio di generazioni. Il sottoscritto era fra i più attempati, e avrebbe gradito almeno un prosecchino in flute di plastica (i grandi raduni rock sono comunque un’orgia di plastica; vetro e lattine sono banditi).

Dunque col ricordo della birrastra e di tutte le sue sorelle di altri millanta concerti mi è sembrato un sollievo, qualche giorno dopo, ricevere l’invito per qualcosa chiamato “Rock the wine” alla Fattoria di Lavacchio in zona Rufina. A mia memoria solo la storia del festival Collisioni in quel di Barolo può vantare, oltre al resto, dei buoni contatti vino-rock: da Bob Dylan ai Deep Purple di cui allego un’eno-copertina vintage 1975.

Del resto gli Iron Maiden me lo avevano suggerito alle Cascine: “Run to the hills”, (“scappa in collina”), è stato un pezzoforte, molto forte, del concerto. Sono andato quindi a Lavacchio, era il giorno dell’equinozio e il luogo era pieno di luce, in magnifica posizione su una sella fra le valli dell’Arno e della Sieve. Niente di più lontano dal dark gotico del metal. Per le note del Funk Ensemble di Simone Dellisanti abbiamo dovuto aspettare il crepuscolo, e le tenebre per il blues della band di Nick Becattini. Musiche certamente più rarefatte, più sofisticate devo concedere, e insomma più consone all’atmosfera idillica di quel parco dove vive il cedro plurisecolare che dà il nome ad alcune etichette dell’azienda.

Nel pomeriggio, in attesa delle note, siamo stati intrattenuti da un bel seminario sui vini senza solfiti aggiunti. Protagonisti l’enologo Stefano di Blasi e il dottor Giacomo Buscioni, che hanno parlato con un linguaggio per produttori, pieno di suggerimenti concreti a partire dal prevedibile ma tutt’altro che banale “Per fare vini senza aggiungere solfiti bisogna partire da uve sane…”. Controllo delle temperature, filtrazioni e uso di lieviti selezionati o pied de cuve naturalmente possono dare più di una mano, anche se ad alcuni sembreranno scelte non abbastanza “naturali”.

Buscioni, forte della sua esperienza coi colleghi del Food Micro Team (un’emanazione dell’Università di Firenze) ha citato anche dei coadiuvanti come il Lisozima, derivato dall’albume d’uovo, o il Chitosano, di origine fungina. Ambedue preclusi a chi pratica il bio, ma anche qui sta ed  è stato il bello: il seminario ha avuto il pregio di limitarsi al “senza solfiti aggiunti”, mentre tutte le altre variabili erano aperte. L’assaggio a seguire e le parole dei cinque produttori protagonisti hanno evidenziato infatti grandi diversità. C’è da dire, comunque, che tutte le aziende vendono anche altre etichette “solfitate”.

In ordine di apparizione:

De Stefani di Fossalta di Piave.

Due vini della linea Redentore dalle due zone dove opera l’azienda.

Il Prosecco DOC brut 2017 è prodotto a Refrontolo, luogo di origine della famiglia dei proprietari, con vinificazione e affinamento con lieviti indigeni da selezione aziendale. Fresco di aromi e morbido, con persistenza notevole per la tipologia.

Veneto IGT Raboso 2015: anche questo ottenuto da lieviti indigeni: ha passato diversi mesi in legno non nuovo. Fruttato nitido di ciliegia ben replicato in bocca, rotondo.

Tenuta Sant’Antonio di Colognola ai Colli.

Fra Soave e Valpolicella. In assaggio due vini della linea Télos, che vengono imbottigliati in atmosfera protetta.

L’IGT Veneto 2017 da Garganega 80% e saldo di Chardonnay è talmente fresco che…profuma di Sauvignon! Di un bel giallo platino, è rotondo e sapido in bocca.

L’Amarone 2012 si rivela di personalità complessa: il fruttato maturo si accompagna a note terziarie intriganti in un tessuto di grande equilibrio.

Alepa di Caiazzo.

Di dimensione artigianale dove l’artigiana si chiama Paola Riccio.

L’IGT Terre del Volturno Privo, da Pallagrello bianco, più che bianco è aranciato, al naso è intenso con predominante erbaceo-balsamica. Col tempo il profumo cambia non poco nel bicchiere, e alla distanza tira fuori pure un bel fruttato; forte anche in bocca, con finale asciutto. Si tratta indubbiamente di un orange, tanto che la produttrice ha ironicamente scritto in etichetta B.O.P. (Broken Orange Pekoe) come fosse un the. E’ un omaggio ai legami della sua famiglia con Skri Lanka, anche se gli amanti del the sanno che quell’Orange è di origine incerta e forse col colore c’entra poco (e c’entra zero col gusto di arancia in ogni caso).

Salcheto di Montepulciano.

Una realtà che già nota per varie scelte “naturali”, qui con la linea Obvius.

Il Toscana IGT Rosato 2017, perlopiù da uve Sangiovese, è molto vinoso e sapido, piuttosto corposo ma di buona beva. Appare di un chiaretto tutt’altro che brillante, l’etichetta export riporta infatti “unfiltered”.

L’altro esemplare è il Giallo Oro IGT Toscana, da uve Trebbiano e Malvasia appena attaccate da bortytis secondo il metodo “sauternes” (così sulla scheda…). Caso interessante per un senza solfiti aggiunti con un’ottantina di grammi di zucchero in bottiglia. Viene utilizzato un taglio di diverse annate, tutte ormai stabili in cantina viene da pensare. Color arancio-ambra velato, al naso molta frutta secca anche a guscio e pure tostata, in bocca morbido ma non troppo. Si possono immaginare abbinamenti avventurosi.

Fattoria di Lavacchio.

Ovvero gli ospitanti. L’azienda è tutta bio e produce ovviamente anche Chianti Rufina; in questa banda di senza solfiti aggiunti figurano però i due i semplici Chianti della linea “Puro”.

Il Chianti DOCG 2017 è violaceo e fragrante di frutto, sapido, fresco e insomma molto palatabile.

Il Chianti DOCG Riserva 2015 è decisamente più austero, e la “barriccatura” di un anno per il momento si sente anche troppo.

Alla fine mi è venuto da pensare che se mi avessero dato in assaggio tutti questi vini alla cieca, chiedendo cosa avevano in comune non avrei avuto la minima idea, avrei pensato a una provocazione. In realtà sono esempi diversi e interessanti intorno a una variabile enologica non da poco.

E pensare che sorridevo sotto i baffi quando gli americani mi dicevano “Beati voi che non avete conservanti nel vino, noi purtroppo si”. Erano gli anni fra il 1987 e il 2005, quando negli Stati Uniti era obbligatorio scrivere “Contains sulphites” in etichetta e da noi (ancora) no. Un bias cognitivo da manuale.

Alessandro Bosticco

Sono decenni che sbevazza impersonando il ruolo del sommelier, della guida enogastronomica, del giornalista e più recentemente del docente di degustazione. Quest’ultimo mestiere gli ha permesso di allargare il gioco agli alimenti e bevande più disparati: ne approfitta per assaggiare di tutto con ingordigia di fronte ad allievi perplessi, e intanto viene chiamato “professore” in ambienti universitari senza avere nemmeno una laurea. Millantando una particolare conoscenza degli extravergini è consulente della Nasa alla ricerca della formula ideale per l’emulsione vino-olio in assenza di gravità.


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