Produttore d’uva: prima e ultima ruota del carro?4 min read

Dopo l’articolo “Vendemmia 2009: il vino peggio del latte?”  ci sembra giusto proseguire su questa strada e cercare di far capire ai lettori come il costo dell’uva sia spesso (e purtroppo) una delle varianti meno importanti nel costo di una bottiglia di vino.

Non crediamo di avere tutte le carte in mano per poter rispondere pienamente a questa domanda ma  vogliamo  provarci ed entrare in questo difficile campo. Siamo comunque aperti a contributi esterni e accettiamo  ben volentieri vostri contributi a riguardo.

In primo luogo per i vini di alta produzione e di prezzo basso (diciamo sotto i 3-4€ stando molto larghi) il costo della materia prima, cioè dell’uva, incide minimamente. Su una bottiglia venduta al supermercato attorno ai 4€ l’uva con cui viene fatto  non costa, ad esagerare molto,  più di 30-40 centesimi (considerate che vorrebbe dire 30-40€ al quintale, quindi un prezzo più alto rispetto ad alcuni riportati nell’altro articolo). Tutto il resto sono i cosiddetti costi di commercializzazione ( bottiglia, etichetta, pubblicità, trasporto, ma soprattutto ricarichi sia dell’azienda imbottigliatrice che del venditore) . Quindi, anche di fronte a forti diminuzioni del prezzo delle uve, quella piccola riduzione  viene facilmente assorbita dagli altri costi  ed il consumatore non se ne accorge.

Ma non dobbiamo vedere (almeno non dobbiamo vederlo sempre) l’imbottigliatore come il demonio. Non per voler parlarne bene, ma sono sottoposti a costi “industriali” come una qualsiasi altra industria, dove il prezzo dei macchinari, delle bottiglie, o  le retribuzione degli addetti non diminuiscono mai anzi.. Quindi anche una forte diminuzione del prezzo delle uve non può essere percepito dal consumatore finale di vini, con tutto il rispetto, industriali.

La stessa cosa accade per quelle aziende imbottigliatrici “di qualità”, cioè che hanno sia vigneti propri sia imbottigliano e vendono vini di denominazioni blasonate. A parte quanto detto sopra si innesca un altro fattore che potremmo chiamare “di compensazione”. Faccio un esempio per far capire: un imbottigliatore che ha in cantina Chianti Classico del 2007 pagato mediamente oltre 300 € al quintale e, magari visto il mercato, rivenduto con un ricarico minimo o quasi alla pari, non abbasserà mai il prezzo del 2008 anche se acquistato a 100€ in meno al quintale, perché deve riprendere quanto ha lasciato per strada l’anno precedente.

Veniamo a chi produce ed imbottiglia solo il suo vino ( o almeno così dice…): il costo dell’uva è solo una voce del totale e certamente, per fare il prezzo del prodotto finito, verrà preso in considerazione il costo a quintale per produrla e non altro. La bottiglia finita potrà avere diminuzioni a prescindere dal costo dell’uva, dovute esclusivamente all’andamento del mercato o  del marchio.

A questo punto, un  po’ per tutte le categorie, entra in campo il valore aggiunto del marchio, sia esso la denominazione d’origine o il brand aziendale. Questo, che ha costi non indifferenti per essere creato e mantenuto (quello che in una parola si dice marketing) è un vero e proprio cuscinetto di protezione per chi ti vende una bottiglia. Infatti il valore aggiunto di una bottiglia può anche arrivare al 400-500% .anche se normalmente si attesta su cifre molto più basse ma sempre “salvifiche” per l’azienda.

Mi accorgo di allontanarmi sempre di più da dove ero partito, dall’uva, nello stesso modo in cui il produttore si trova lontano dal tavolo dove viene deciso il prezzo del vino fatto con il frutto del suo lavoro. Anche se nel mondo del vino questa distanza è forse più ridotta che in altri settori (penso ai produttori di grano) il vero problema è che il produttore d’uva  è la prima e l’ultima ruota del carro. E’ lui quello che produce ed è lui quello che si ritrova il cerino acceso in mano quando le cose vanno male.

Come poter migliorare questa situazione? Non credo bastino le distillazioni obbligatorie, ne tantomeno i contributi a pioggia. Occorrerebbe forse smetterla con i ragionamenti per tangenti. Molto spesso si pianta vigna in momenti di grande euforia di mercato, pensando che, se sta andando bene ora, andrà bene sempre. Ovviamente questo non succede e si crea un naturale surplus. Un po’ come accade agli sprovveduti che entrano in borsa richiamati dai prezzi sempre più alti delle azioni:  comprano quasi al massimo e poi, dopo il fatale crollo, vendono con la coda tra le gambe al minimo.
Molti produttori d’uva hanno fatto così e purtroppo altro lo faranno: su questo bisognerebbe intervenire, aiutandoli a fare scelte più oculate (consorzi, organizzazioni di categoria…ci siete?).

Per chiudere torniamo a quanto detto all’inizio: non abbiamo mai creduto di possedere la scienza infusa e per questo accettiamo con piacere qualsiasi contributo possa chiarire meglio i problemi messi sul tappeto.

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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