Pensare ad una Doc per la zona di Mamojada, una Doc a qualità totale9 min read

E’ Ferragosto! Siete spaparanzati sotto l’ombrellone ed è il momento giusto per gustarsi il progetto di vita futura a cui stanno pensando a Mamojada e dintorni. Ve lo spiega Francesco Sedilesu.

Come produttore faccio una riflessione: la pandemia ci dovrebbe aver fatto cambiare la prospettiva nel modo di intendere il nostro futuro e sulla cosiddetta crescita infinita, che finora ha causato la continua necessità di ritornare indietro a raccogliere i cocci. Sia per i danni fatti in campo sociale, che ambientale,  tanto che qualche giorno fa abbiamo esaurito le risorse del pianeta, è arrivato l’<<Overschoot day>>.

Ma a quanto pare la voglia di ripartire, di cogliere al volo il rimbalzo economico, sta creando una frenesia, anche nel mondo del vino, che non va però in direzione del cambiamento auspicabile, di un ripensamento totale rispetto alle logiche commerciali e di puro profitto.

Basta vedere l’aumento di Mergers & acquisitions nel settore vino, che ha l’unica preoccupazione di diminuire i costi concentrando l’offerta con tutto ciò che ne deriva,  oppure la nuova Pac che timidamente si preoccupa della parte sociale limitandosi al controllo della regolarità del Durc (documento unico di regolarità contributiva. n.d.r.) delle aziende assistite.

Ancora troppo poco in vista di una visione programmatica di valorizzazione e tutela delle comunità rurali che continuano a sparire, confinando le aziende agricole in solitudine, condizione sociale che ne compromette anche il ruolo, oggi richiesto, di produzione di qualità e tutela ambientale .

Non si tratta di una visione ideologica, urge la necessità di una visione politica realistica che si potrebbe realizzare anche a costo zero: si tratterebbe infatti  di fare interventi di settore e sulla singola azienda, ma dandogli priorità  se fatti all’interno di comunità rurali costituite come  figura giuridica. Figura giuridica che per esercitare la sua funzione deve essere “leggera”, non oberata da pesi burocratici e fiscali, da ripensare totalmente rispetto agli inadeguati e ideologici modelli proposti dalla normativa attuale, legati alla forma amministrativa della cooperativa sociale, non adatta per una comunità grande e composita.

Servirebbero nuove leggi che tengano conto esclusivamente della discriminante  comunitaria e territoriale, con delle regole generali e spazi specifici per l’adattamento dei regolamenti ai diversi territori e, nel cui ambito, operino  le varie forme di impresa agricola: un mondo “uguale”, ma molto più piccolo, diretto e partecipato. Solo così può esistere una comunità agricola realmente viva, che condivide la responsabilità e gli utili: utili non di gestione, ma quelli non misurabili in valore e ben più importanti, relativi al proprio patrimonio sociale, territoriale, produttivo e ambientale che non è messo a rischio.

Si ravvede a ogni livello la necessità di una transizione ecologica, di  ripensare il nostro rapporto con l’ambiente e, oltre ai grandi temi dell’energia e dell’inquinamento, è necessaria una visione circolare per portare avanti  le nostre attività agricole. Le comunità rurali sono custodi dell’ambiente ma non solo; queste vivono esperienze ricche della continua interazione con la natura tramite il lavoro agricolo, la cultura, la religiosità e la ritualità.

Un mondo  più che poetico,  di “sostanza”,  in cui l’uomo ha un rapporto diretto con la terra all’interno di una comunità, dove il suo fare non deprime il suo essere, dove  la tecnica, anche nel fare il vino,  non è un freddo utilizzo di fattori produttivi (tra cui facilmente è compreso l’uomo stesso) ma uno strumento di conoscenza e di indagine che lascia spazio allo stupore nella contemplazione della bellezza. La bellezza della natura che pone domande sul senso della vita e allo stesso tempo è la bellezza stessa a dare esaurienti risposte, a spiegare che nella natura è racchiuso il senso della vita. Questo è essenziale per l’uomo di oggi per non essere preda della disperazione.

Pensare che tutta l’umanità ritorni alla terra è utopico, ma pensare alla comunità rurale come oasi che fa un servizio oltre che di custodia ambientale, di tenere aperta una via, una connessione tra l’uomo e  la natura attraverso l’attività agricola, questo è possibile. Non è una condizione museale,  non è una “riserva indiana”, ne la decrescita felice, non è neanche una innovativa politica di marketing dove il villaggio salva il prodotto (vedi spot birra Kozel), mentre il prodotto serve solo a fare profitto.

Si tratta dell’uomo di oggi, ma di un uomo civile, di cultura, comunitario e si spera religioso ( in quanto condizione connaturata all’uomo rurale che ha con la terra un rapporto sacrale e misterico) , un uomo che vive del proprio lavoro contadino, consapevole e orgoglioso del proprio posto nella comunità e nel mondo. Da noi a Mamojada e nei comuni vicini della Barbagia, isola nell’isola, si è conservata per motivi fortuiti (in passato definiti di arretratezza) la comunità rurale. La qualità della vita è altissima con alla base la famiglia, la collaborazione e la condivisione, la religiosità e le feste paesane, la cultura con le maschere propiziatorie, l’archeologia, i musei, l’orticoltura familiare, la pastorizia e i prodotti consumati direttamente.

La viticoltura più che biologica è da sempre praticata e il vino, per sua natura, è rappresentante  della bellezza di questa terra di cui gratuitamente, grazie al buon Dio, siamo abitanti. La nostra è una realtà  vitivinicola che ha una storia secolare e  in questi ultimi anni, con la nascita di cantine che mettono il vino in bottiglia e con l’attività dell’associazione dei viticoltori Mamojà, si è avuta una rivitalizzazione ragguardevole della comunità e il paese non si spopola: nascono tanti bambini e i giovani non vanno via ma aprono delle piccole cantine familiari e amano la propria terra e il loro lavoro.

Quest’anno in Mamojada Vives , manifestazione annuale che promuove il vino del paese, è stata indagata l’ipotesi di una Doc territoriale. Le Doc  più utilizzate in Sardegna sono basate sul vitigno e non sui territori e quelle territoriali sono poco valorizzate anche se si intravede, in vari siti, l’inizio di un movimento che speriamo in breve tempo e con la collaborazione tra produttori possa consentire l’inizio della nuova era del vino sardo; nessuno, infatti, si salva da solo.

Visto che da noi la collaborazione tra produttori ha già consentito uno sviluppo virtuoso impensabile nel giro di pochi anni e fatto salvo che la maggior parte dei produttori siano d’accordo sulla proposta di  fare una Doc territoriale, con i livelli di qualità dei vini definiti in base a sotto-zone comunali e alla vigna (o ghirada come diciamo noi) le difficoltà per crearla sono solo politiche.

Una Doc di questo tipo dovrebbe avere stesi davanti i tappeti rossi ad ogni livello, perché in tante regioni italiane sono le doc  territoriali a trainare il comparto:  per esempio alcune Doc e DOCG piemontesi, l’Etna in Sicilia con le contrade e a quanto pare, con l’avvento delle UGA, se ne sono accorti anche in Toscana .

Inoltre la nostra attività renderebbe finalmente reali e concreti  gli slogan ultra-datati (che sono stati sempre uguali per i nostri politici di ogni colore) quali piano di rinascita, sviluppo delle zone interne, combattere lo spopolamento, combattere la disoccupazione giovanile e così ridurre la criminalità.  Ma finora, a parte l’amministrazione comunale, nessuno si è fatto avanti per darci una mano e abbiamo fatto tutto da soli.

La nostra unica speranza è, come dicevo, che nuove politiche statali ed europee aprano una strada preferenziale a iniziative di comunità agricole organizzate, così da sorpassare la cecità dei politici e dei funzionari locali. Purtroppo, ancora, sono in atto i vecchi meccanismi e se arrivasse in zona un grande investitore la Doc potremo averla domani  (sic!).

Ma questa è una via auspicabile? Io penso di no perché automaticamente saremo coinvolti in logiche che ci sovrasterebbero e l’intera comunità rurale e i suoi virtuosi equilibri sarebbero messi a rischio. Meglio che gli investimenti, gradualmente, vengano fatti da noi in maniera responsabile, strutturando sì le nostre aziende e rendendo un giardino il nostro agro, potenziando i servizi, ma tenendo sempre presente che la nostra ricchezza, è prima di tutto la nostra matrice territoriale intesa come terroir alla francese, il nostro genius loci, la nostra vita comunitaria: è da qui che sgorga il Vino.

Vorrei chiarire e ribattere ancora che la mia non è una visione ideologica, ne idolatrica che trascende la dimensione della persona e del vino stesso. Se arrivasse un amante del vino e di questo territorio che sceglie di essere un abitante di Mamoiada, entrando a far parte della nostra comunità con scarse o ampie risorse, credo sarebbe, come capita da sempre, ben accetto.

Queste sono persone che fanno del buon vino, si spera, mentre non lo farebbero altre attività di puro investimento con logiche di profitto distruttive di cui, anche noi nativi, purtroppo, possiamo  essere degli autori: per questo ci siamo dati delle regole.

Il nostro è un equilibrio difficile da trovare, ne sono consapevole,  fare dei vini unici e assoluti con tutto quello che serve e conservare l’anima naif che ci contraddistingue è un connubio difficile da realizzare, l’alternativa però è terribile!  Ci sono dei posti di grande elezione per il vino in Italia e nel mondo,  che hanno perso completamente l’ordine dei valore originari e i villaggi agricoli sono solo delle dependance  aziendali, luoghi morti e senza vita dove nessun giovane, nessun figlio ci abita più, ne ci vorrebbe abitare nonostante i grandi fatturati. La manodopera la si recupera in paesi in via di sviluppo, squadre specialistiche diverse per ogni stagione e i produttori, anche alternativi, spesso sono in giro per le fiere a promuovere il prodotto e seguono le attività agricole da remoto.

Sono dei posti per far vino, ma non sono più villaggi del vino, quello vivo, vitale.  Nel mondo del vino e non solo si vede quanto è aumentata  l’attenzione verso le pratiche agricole conservative, vedi biologico e biodinamico, che sono molto importanti, ma costituiscono solo una parte della soluzione del problema del sistema pianeta e dell’intera umanità messa a rischio.

Non si tratta, di fatto, solo di un problema meccanicistico; se abbassiamo i valori della CO2 emessa, se risolviamo il problema energetico, se risparmiamo l’acqua, se rivitalizziamo il suolo, questo non basta a rimettere a posto l’equilibrio tra l’uomo e la natura.  Solo nelle  comunità agricole che preservano l’ambiente e la  vita rurale dell’uomo nella sua complessità questo si realizza e in futuro credo, sarà l’unico modello percorribile di produzione agricola, almeno intesa di qualità, qualità totale.

Dobbiamo avere fiducia in questo e pensarlo sia come una missione importante per il bene dell’umanità, forse più ambiziosa che andare su Marte, sia  come futuro dei nostri figli e nipoti: consideriamo che, anche se ci volesse tanto tempo, a vivere come viviamo, il tempo non sarà comunque perso.

Francesco Sedilesu

Francesco Sedilesu è sardo, di Mamoiada. Produttore di vino ma anche penna profonda e grande conoscitore della sua isola.


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